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mercoledì 14 maggio 2014

Sunto di alcune riflessioni sulla ‹partecipazione›
riferite al Sig. XX.



La  ‹partecipazione› è di più facile comprensione se si paragona con una comune diplopia.
La diplopia è un’infermità degli occhi che vedono due immagini raddoppiate della realtà come se ciascun occhio ‘lavorasse’ privatamente, per conto proprio. Ia duplicità degli occhi normalmente serve invece per misurare la distanza dell’oggetto osservato senza permettere la confusione  e l’errore. Ul bambino con questo difetto per avere una visione unica e distinta dell’unica realtà deve, per così dire, avere il coraggio di accecare una delle due visioni e per questo basta coprire con una benda uno dei due occhi per un certo tempo. In un modo ben diverso ma analogo, Dio vede sempre una sola realtà univocamente e distintamente per quel che essa è, mai confusa e mai necessitata da tante spiegazioni inutili e imprecise. Per esempio, Dio vede l’ostia consacrata per quel che effettivamente è, cioè, ‹vede› non il pane non le apparenze ma quel se stesso che nutre la volontà, la verità e il bene in modo partecipante, cioè donato, affidato e ceduto in possesso (in uso, non in proprietà) (MT 21,33 ss.), che egli ha dato all’uomo affinché egli possa vivere, essere libero, amare, come se fosse un ‹altro Gesù›, ovverosia una ‹partecipazione-di-Gesù-vivente-in-terra›. Noi per vivere la partecipazione non dobbiamo vedere l’ostia consacrata solamente come materia e nemmeno vederla come se fosse il  pane messo insieme a Gesù, come se fossero due realtà associate .Sarebbe, infatti, un errore usare per una simile conoscenza oltre alle idee e alle idealità anche le sensazioni e gli istinti che sono necessari all’inizio della conoscenza, ma che non siano congruenti e conclusivi se mescolano quello che si vede con gli occhi del corpo insieme agli occhi della fede quando la conoscenza è diventata sapienza, pur passando nell’intermezzo della scienza,. Si tratta di un'unica visione oltre a tutto infusa da Dio stesso. In questo senso, e con questa ‹visione› la partecipazione, anche se non fosse esplicita, assomiglia non solo al pane e al vino ma a un prestito concesso all’esistere umano con la rivelazione e, assomiglia ancora a un  un possesso donato alla natura creata e, non ultimo, la vocazione a una chiamata per la scelta e la responsabilità dell’esercizio delle virtù proprie dello spirito dell’uomo.
Da queste premesse diventa comprensibile il paragone dell’‹accecamento› di una delle due visioni doppie per ottenere prestazioni così specifiche con un valore incalcolabile e impossibile da parte di un uomo che non potesse risorgere sempre e per sempre.
Ovviamente una considerazione del genere non è stata inventata da me ma è stata spiegata e rivelata nel Vangelo. Gesù parla di un dono di Dio come se fosse stato un prestito a un suddito fedele (MT 25, 14 ss.), o una comunicabilità aggiunta e necessaria del pastore con le sue pecore (G. 10, 1 ss.) e, ancora, come la perla preziosa (MT 13, 45 ss.) o il tesoro nascosto che può arricchire lo spirito di ogni uomo (MT 13, 44 ss.). Le parabole esposte da Gesù possono essere interpretate come la spiegazione scientifica e la rivelazione sapienziale delle partecipazioni effettive e personali di Dio per ogni uomo.
Effettivamente noi testimoniamo in molte occasioni o in più precise esperienze un lavoro umano in comunione con un dono di Dio al punto che non possiamo spiegare nemmeno a sufficienza tutto quello che l’uomo ha inventato come se egli solamente fosse stato
l’unico autore delle proprie imprese, oppure l’inventore delle proprie scoperte o, ancora, la provvidenza di chi sa cambiare il male in bene. A proposito di questo dato di fatto si sono cercate tante spiegazioni e, in questo senso il concetto di panteismo potrebbe generare altre confusioni a proposito, mentre più esplicitamente queste poche righe sulla partecipazione introducono la riflessione su ‹il discorso dell’etica›. 
In questo modo il colloquio con il signor Wörling ha preso la caratteristica di una meditazione sulle ‹virtù›, quasi come se questo solo argomento mettesse in evidenza il significato del termine partecipazione.
Le virtù dei filosofi sembrano avere una storia che è iniziata con Platone, che poi è stata riadattata nei termine del possibile e del ragionevole da parte di Aristotile ‒ le virtù, ma non troppo e non poco ‒ per finire nella dimenticanza quasi assidua dei filosofi successivi.
Tutto questo se si esclude quell’uomo filosofo che essendo soprattutto Dio, seppe spiegare con i fatti e le parole, il significato del termine virtù. Le virtù di Aristotile erano la confessione del possibile ragionevole e del buon senso pratico, ma in questo modo si sono perse nella dimenticanza.
Quelle di Gesù erano e sono ‹assoluta-corrispondenza-alla-partecipazione› ‒ ‹corrispondenza umana› e ‹assoluta divina›. Istruendo il comportamento degli apostoli, non si fermava certamente alle mezze misure ma indicava come la virtù sia effettiva e partecipata solo se è prudente e nello stesso senso semplice (Mt. 10, 16). La prudenza evita di dar le perle ai porci (MT 7, 6 ss.) rischiando di venir ingoiati dalla loro crudeltà, mentre la semplicità è senza intoppi e senza presunzioni come è quella dei bambini che non hanno mai un partito preso, né una apertura limitata. In questo senso quando i filosofi non parlarono di virtù, gridarono allora i santi e i martiri in tutto il mondo testimoniando con i fatti la filosofia delle virtù.

A questo punto avrei forse dovuto continuare riportando altre considerazioni sia quelle dei miei scritti sia quelle di altri autori ma bastava la consonanza e l’attenzione del Signor Wörling senza mancare quella del suo figliolo  che ascoltava con attenzione, per rimanerne consolati come se il discorso fosse già finito senza codicilli.

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