paginario.autore
Brevi appunti per
una filosofia pratica
Introduzione
Abitualmente chi scrive un libro alla fine lo correda con una prefazione che nessuno è obbligato a leggere prima del testo, ma che alcuni la leggono per sapere se comperarlo. Probabilmente, però l’introduzione serve anche all’autore per affermare a sé e agli altri di non aver fatto qualcosa di inutile che finisca con l’aumentare il mercato dei rifiuti, al posto di rispondere a quello delle necessità. Ebbene, io non sostengo di avere l’esclusiva di quel che ho scritto, che qua e là può essere già stato detto da altri, ma è proprio il già sentito, ma non ancora appreso a rendere piacevole e utile la lettura di un libro. Allo stesso modo, io non affermo di aver esposto argomenti che più o meno hanno pensato già un po’ tutti, ma è questo tutti il presupposto di un colloquio su ragioni, prove e assunti che sono più attuali e quasi più impellenti che non solamente scelti per puro aggiornamento.
In questo senso non mi arrogo la pretesa di presentare soluzioni a determinati problemi che altri hanno già preso in mano, ma ho cercato di esporre quelle arringhe che potrebbero essere valide per i giurati e non solamente discusse dagli avvocati di parte.
Per farla corta, sarei già soddisfatto se la lettura fosse piacevole, se poi sarà di aiuto nell’approfondire qualche problema non sarà un male per nessuno e non lo è stato per me, quando rileggevo e correggevo quel che avevo pensato, per cercare di viverlo ancor meglio di come l’avevo scritto.
Un parere accettabile da tutti
Ogni uomo ha desideri e esigenze diverse e non si accontenta di risposte ottenute in serie da una macchina che funziona a gettoni, perché si aspetta delle soddisfazioni personali. In pratica ciascuno di noi desidera essere capito, anzi di essere riconosciuto e stimato non potendo accantonare il proprio valore. D’altra parte molte volte egli s’incontra con l’indifferenza dell’ambiente che lo circonda oppure con quelle abitudini noiose che fanno diventare anche lui indifferente nei riguardi degli altri.
Dobbiamo forse rassegnarci a un modo di vivere in un mondo che non ci soddisfa completamente?
Non dobbiamo piuttosto fare il punto della situazione e chiedere alla nostra ragione delle risposte certe e soddisfacenti e, se non bastano, anche ai sapienti del nostro tempo e, in generale, alla filosofia?
D’altra parte al giorno d’oggi di sapienti ce ne sono troppi, ma le loro risposte sono fatte spesso solo per i professori e gli specialisti e non sembrano adatte al vivere comune; anzi sono talmente tra loro differenti che si contraddicono a vicenda e non servono a rassicurarci del tutto. Di per sé tanti pareri non sarebbero un male, se ci permettessero di godere un po’ di varietà, ma quando sono tra loro discordanti sono disastrosi perché non ci lasciano vivere in pace e le guerre passate e presenti non sono la miglior raccomandazione per servirsi sempre di una diversità che porta divisione e che fomenta inimicizie.
Stando così le cose, sembra questo il momento di cercare un qualche parere che sia accettabile da tutti, senza preclusioni e senza prevenzioni. Questo è possibile se cominciassimo, oggi, a ragionare da capo, come se non l’avessimo fatto fin ora. Questo partire da zero è una base che può andar bene per tutti, almeno in teoria, perché non condiziona nessuno. In altre parole, ammettiamo che vi sia un uomo che sia così vuoto di giudizi propri da aver la capacità di capire e di far suo qualsiasi parere, costui è certamente aperto al massimo della conoscenza, perché non la limita prima di apprenderla. Ebbene, prima ancora di andare in cerca di un uomo del genere, dobbiamo riconoscere di incontrarlo tutti i giorni sotto le vesti di un bambino. Il vantaggio principale di questa scelta viene dalla considerazione non solo del fatto che un bambino quando inizia a guardare e a prendere in considerazione il suo mondo è un uomo che non esclude alcunché di quel che vede, ma anche, e soprattutto, che in questo modo veniamo a trovarci insieme a lui come in uno ‹stato di natura› senza la necessità di escogitare artifici e complicazioni, prima ancora di aver usato la ragione e di aver conseguito qualsiasi conoscenza.
Le premesse per una consonanza di pareri
A questo proposito esistono molte teorie e altrettante interpretazioni sulle caratteristiche del ‹cucciolo dell’uomo› sia da parte di filosofi, sia degli psicologi ma, senza poter negare che ci abbiano aiutato ad avvicinarci a lui per capirlo meglio, noi vorremmo attenerci alla pura descrizione dei fatti, per non incorrere nell’errore di attribuirgli quel che è nostro e che egli invece non possiede e nemmeno conosce ancora.
Quali sono le caratteristiche tipiche del neonato?
Un neonato fin da nascita è un essere la cui vita dipende completamente dalle cure della madre o di un suo sostituto: senza di esse è condannato a morire. Si tratta quindi di una dipendenza necessaria nella quale il piccolo si muove senza nemmeno saperlo e che la stessa madre impara a conoscere da quella maestra che è la natura, anche se si fa aiutare da chi ha maggior esperienza che ha acquisito nei suoi stessi riguardi. Il neonato quando ha fame o freddo strilla e la madre rimane sul chi vive per soccorrerlo e fornirgli quel che gli manca, tutti e due obbediscono ad una necessità e ad una preoccupazione che non conoscono, o almeno, che conoscono mettendone in pratica il rimedio. In questo modo le necessità impongono un agire e gli effetti di questo agire diventano spiegazione del fatto e costituiscono un dato reale indiscutibile. In altre parole, una volta entrato in questo mondo, l’uomo si trova in uno stato di necessità, che viene soddisfatto dall’intervento di un suo simile, che sembra fatto apposta per soccorrerlo in questa occasione. Questo quadro primordiale e primario non cambierà più per tutta la durata della vita di un uomo, con un’unica differenza, che egli si accorgerà di una ripetizione al punto che ciò che prima era necessario e sconosciuto potrà diventare ricercato e scelto, oppure evitato e rifiutato. Tuttavia sia la scelta, sia il rifiuto non possono mettere in dubbio il fatto che l’uomo è un animale dipendente. Egli trova le risposte a questa dipendenza prima ancora di accorgersi della loro necessità, o almeno a prescindere dal fatto che le sappia capire e spiegare, anzi che le conosca, o le ignori. Probabilmente se le cose stanno solamente come le abbiamo descritte, allora non esiste una grande differenza tra il cucciolo dell’uomo e quello di un animale. Questo quadro è quindi incompleto. Quel che manca è la ‹corrispondenza›. Osserviamo di nuovo il quadro primario: c’è un bambino che piange, una madre che accorre, lo cura e, come conseguenza, un bambino che si acquieta. Il quadro è idilliaco: gli interlocutori sono soddisfatti e si sorridono a vicenda e anche questo sorriso è spontaneo e naturale come la stessa richiesta e la conseguente risposta adeguata ma, a un certo punto, la situazione può cambiare del tutto perché, per esempio, ci può essere una mancanza di risposta o una difficoltà di richiesta. In questo nuovo quadro si è aggiunta una mancanza che è una richiesta in più, che purtroppo sembra senza la possibilità di una risposta. Ebbene, mentre l’animale sembra sovvenire alle esigenze del suo cucciolo in modo stereotipato e senza scelta, la mamma invece può reagire in due modi: o rassegnandosi al suo fallimento e rinunciando ad ogni risposta, oppure mettendosi in cerca di qualcosa di nuovo che ella spera di trovare. La corrispondenza diventa più completa: sta in questa scelta della madre nei confronti di una mancanza; in un caso la accetta come difficoltà da superare, ma la può anche subire come fatalità senza rimedio. Mentre l’animale sperimenta le situazioni come necessarie, l’uomo le riconosce come più o meno possibili e ne sceglie le diverse possibilità che esse offrono.
Tra i due quadri che illustrano il rapporto della madre con il bambino la differenza sembra evidente ma, a ben vedere, hanno un medesimo tratto in comune che consiste in questa aspettativa di una risposta che dovrebbe venire ma, che in quel momento che non è ancora venuta, è pur sempre una mancanza. È questo bisogno insoddisfatto, o non ancora soddisfatto, che mette in risalto la straordinarietà dell’ordinario; se non ci fosse non avvertiremmo nemmeno la corrispondenza che esiste in seno al colloquio tra madre e figlio e rischieremmo di ritenere l’uno dei due interlocutori il motivo dell’altro senza accorgersi che la vera ragione dei due sta nell’armonia del loro rapporto e non nella determinazione dei singoli. In altre parole il rapporto è un colloquio e non un soliloquio; per questo rivela una corrispondenza e non una imposizione o una pretesa che cambierebbe il colloquio in una contrasto e in una affermazione di contrarietà. Anche quando questo tipo di rapporti si ripeteranno nei quadri successivi della vita di ogni giorno, anche quando gli interlocutori rifletteranno sul loro evolversi, persino quando li progetteranno – come se non fossero già programmati – se non si disporranno a scegliere l’armonia in base ad una corrispondenza sperata, pur senza una preventiva assicurazione, rischieranno sempre di fermarsi al soliloquio e non al colloquio, con il risultato di un contrasto e non di una armonia. È inutile costruire delle teorie per giustificare il possibile contrasto o per ritenere che debba essere necessario: in un mondo di corrispondenze le aspettative favoriscono il colloquio in ordine alla ricerca ed alla scelta di una armonia prestabilita e predesiderata anche se inavvertita, mentre in un mondo di contrasti ogni richiesta è una pretesa, ogni offerta è un dominio e ogni colloquio è impossibile, sebbene necessario al fine di non impedire qualsiasi rapporto, più necessitante dello stesso colloquio e più limitante delle stesse dipendenze.
In altre parole, se qualche filosofo ha sostenuto che l’uomo è un lupo per un altro uomo e se la vita della società è una guerra, non ha detto il falso, ma ha descritto quel rapporto di persone che cercano quello che non è spontaneo e ordinario, ma che pretendono di sostituirlo a quello naturale. Se altri filosofi hanno sostenuto che il bambino rivela una natura felice e buona, non hanno detto il falso, ma hanno descritto un singolo interlocutore di un rapporto che invece è tra due persone diverse, pur corrispondenti tra loro. Piuttosto per noi è importante sapere che il colloquio presuppone sempre una disposizione assenziente e assertiva e non contrastante o dominante; anzi la corrispondenza del rapporto postula la necessità di questa armonia o di questo ordine che l’uomo impara ben presto ad ammettere come un dato di fatto, così come lo è il colloquio stesso.
Dopo queste osservazioni sembra che ci siamo allontanati da quanto ci eravamo prefissi perché abbiamo parlato quasi più di come noi conosciamo il bambino al posto di riconoscere come il bambino rappresenti per noi l’esempio della natura incontaminata dell’uomo. Dobbiamo quindi ritornare a considerare le sue caratteristiche primordiali.
Quel che differenzia il bambino dall’adulto è una certa spontaneità innocente e senza prevenzioni. Se abbiamo descritto il comportamento della madre nei suoi riguardi è per cercare una qualche spiegazione al fatto che il bambino non metta mai in dubbio di ottenere quello di cui ha bisogno. Di per sé egli agisce spontaneamente e senza conoscere le proprie necessità, tuttavia rimane indiscutibile il suo ottimismo innato e incosciente, mentre per l’adulto tante volte codesto ottimismo sembra un’illusione o una mancanza di concretezza. Eppure in cerca di una precisione più accurata dobbiamo riconoscere che non solo il bambino, ma sempre l’uomo a qualsiasi età riceve dal mondo che lo circonda tutto quello che gli è necessario e con altrettante insistenze e proteste reagisce alla sua mancanza. Quindi nell’adulto è diminuito l’ottimismo non è cambiata la richiesta come se fosse un diritto naturale. In questo senso la mancanza di ottimismo e il dubbio di ricevere diventano un ostacolo e un’incertezza a cercare quello che si vuole ottenere. In altre parole, se l’operaio chiede il compenso del suo lavoro, lo scienziato il premio della sua ricerca, la sposa l’affetto del marito è perché si aspettano una risposta a queste loro necessità e non perché dubitano di riuscire a ottenerla. Anzi quel che differenzia il bambino dall’adulto sta nel fatto che quest’ultimo non strilla quando non ottiene, ma medita e studia il modo per avere quello che gli sembra negato, perché ha imparato che ad ‹arrabbiarsi› il disagio aumenta e le possibilità diminuiscono. In pratica se l’adulto ha perso un poco il suo ottimismo avrà mille ragioni, ma se lo riacquista come un bambino, ritroverà un supplemento di ragione per essere più uomo e più naturale. Si tratta di quella disposizione affettiva che si chiama ‹volontà›, ma che non è volontarismo, perché è caratterizzata dalla fiducia e da una certa speranza. Un uomo senza fiducia diventa depresso e la depressione è una malattia e un deficit naturale.
In questo senso se la natura dell’uomo è propria di un ‹essere-dipendente›, d’altro lato non senza un’altra disposizione che consiste in una affettività fiduciosa e ottimista nei riguardi delle dipendenze con le quali egli si deve confrontare. Da questo punto di vista se abitualmente si dice che l’uomo è un animale ragionevole, si può anche tradurre questa definizione in un’altra simile e più precisa: ‹l’uomo è un animale che cerca con fiducia ciò da cui dipende›. Con questo non si vuole mettere a tacere tutte le difficoltà della ricerca e tutti i silenzi delle risposte mancate, ma a questo proposito si tratta di comprendere meglio cosa si intende con ricerca e con fiducia. Sono questi gli argomenti della filosofia: per quel che riguarda la ricerca si tratta del problema della conoscenza, mentre quello dell’affettività riguarda la fiducia.
Conoscenza
Dalla filosofia alla conoscenza
Una risposta ad una domanda equivale all’acquisto di una conoscenza e la ‹conoscenza› rappresenta il primo passo della filosofia. Si tratta del rapporto dell’uomo con la realtà che lo circonda. Fin dall’inizio della vita egli si trova con una quantità enorme di risposte che superano ogni richiesta e che di conseguenza non vengono nemmeno comprese del tutto. Le nostre riflessioni potrebbero quindi riguardare la realtà stessa, oppure il tipo delle domande che l’uomo abitualmente le pone, tuttavia prima di rivolgere le nostre attenzioni all’oggetto della conoscenza e allo stesso soggetto conoscente noi vorremmo descrivere il processo stesso del conoscere, così come avviene, per renderne più facile l’uso al fine di ottenere i risultati migliori.
Per continuare sulla falsariga del nostro progetto cominciamo dalla conoscenza se non del neonato almeno del bambino. Tutta la realtà gli si manifesta come un dono che egli prende con le mani e imita con l’intelletto.
Conoscenza iconica o delle rappresentazioni
La ‹prensione-imitazione› della realtà da parte del bambino costituisce il primo passo della conoscenza.
Per mezzo della imitazione il bambino copia la realtà in una immagine che la rappresenta e che egli può riprodurre anche in forma semplificata e simbolica: nasce così l’uso delle parole – espresse nei simboli – sia nel bambino che prendiamo in considerazione, sia in quell’altro bambino che è l’umanità nei suoi primordi.
Questa conoscenza cambia quindi l’esistenza del bambino ma, nello stesso tempo, anche l’esistenza dell’oggetto conosciuto, tanto che una cosa all’interno di questo rapporto acquista un aspetto diverso e nuovo – non solo la costruzione, ma anche la distruzione è una specie di rifacimento.
In questo modo la ‹conoscenza› risulta una sorta di ricostruzione della realtà, al punto che non è più quella di prima e che consiste in un ‹esistere› indiviso dei due – il soggetto e l’oggetto – e, nello stesso tempo, in un permanere di un essere nuovo che rimarrà anche quando non sarà fisicamente presente e, perfino, quando verrà dimenticato; per esempio, anche quando dovesse morire il padre, la parentela non scompare e ha sempre conseguenze legali. In questo senso non solamente l’oggetto della conoscenza esiste donandosi al soggetto, ma anche il soggetto esiste a favore della realtà conosciuta: si tratta, quindi, di una donazione reciproca.
La concretezza di questa conoscenza-dono è possibile ed evidente proprio perché ‹esiste› con l’esistere del bambino-soggetto e della realtà-oggetto. Vista dal bambino essa consiste da una successione di immagini di tipo cinematografico, che sono chiare e distinguibili perché avvengono una dopo l’altra, ma che alle volta posseggono dei passaggi incompleti come dei quadri oscuri. Il bambino per rimediare a queste oscurità è portato a sostituirle con dei video-quadri ritagliati da altre rappresentazioni tratte dalla memoria, che sono tuttavia incollate e non poste in una successione naturale, perché sono introdotte artificialmente nel flusso della conoscenza esistente. Nascono così le favole e la fabulazione. In pratica il bambino spiega – spiegare nel senso di disporre analiticamente – il susseguirsi della conoscenza introducendo qualche immagine falsa. Il motivo di questo errore auto permissivo dipende dalla necessità di costruire una conoscenza che sia comunque sempre d’accordo con la propria logica e, soprattutto, con la propria affettività. Per questo egli non solo sostituisce i quadri mancanti, ma ancora prima toglie o oscura quelli che non gli piacciono per sostituirli con altri che egli crede più convenienti e più chiari. In altre parole la sostituzione costituisce una contraffazione, ovverosia una favola, ma è un tentativo di raggiungere una chiarezza maggiore e una gratificazione più soddisfacente.
Ben diversamente avviene con una affettività sempre più purificata e con una razionalità illuminata che mettono in maggiore evidenza le caratteristiche dell’oggetto in modo che esso possa manifestarsi non solo per come è, ma anche per come tende ad essere. In una parola mentre il soggetto opera una sempre più accurata purificazione della conoscenza, anche l’oggetto si perfeziona agli occhi del soggetto che lo conosce – diventa più chiaro e più soddisfacente – al punto di mostrare anche quelle perfezioni alle quali tende naturalmente, anche se non le ha ancora conseguite. Tra queste perfezioni ‹in costruzione› alcune possono a questo stadio della conoscenza risultare oscure e spiacevoli, ma la realtà ‹educa› il bambino a guardare non solo al suo esistere del momento, ma anche a quel suo dover esistere che lei stessa si premura di annunciare.
Questo esistere completo di un esistente indirizzato al dover esistere, è una sorta di quadro che riunisce tutte le immagini possibili della realtà che assomigliano a quella conosciuta in un unico insieme, quasi un campione-copia di tutte le realtà che sono tra loro simili, perché ha qualcosa di simbolico, anche se solamente come figura e non come concretezza. Si tratta a questo proposito della costruzione del ‹mito› e dei miti, ovverosia di immagini-icone della realtà capaci di rappresentare una certa perfezione e di togliere le oscurità a quelle altre immagini simili che loro rappresentano con il simbolismo in forma eccelsa. Il mito è, in questo modo, una specie di estrapolazione spontanea della conoscenza e le realtà – uomini e cose – diventano miti, perché tendono ad esserlo e perché il soggetto tende a conoscerli sotto questo aspetto.
Con ciò non si può sostenere che le cose abbiano già raggiunto la perfezione, o meglio, che il rapporto esistenziale soggetto-oggetto sia già perfetto. È vero che le realtà si sono manifestate come un dono per il soggetto, ma si tratta di un dono che deve risultare sempre più quel che è per via del completamento della conoscenza che, invece, è ancora ai primordi. In questo senso i miti sono veri, ma incompleti e, quindi, da un altro punto di vista sono falsi, perché promettono molto, ma mantengono poco, infatti, indicano la perfezione, ma non la mostrano né la spiegano a sufficienza. Per questo la verità intravista è ancora in parte oscura e la convenienza provata non è ancora del tutto un bene, persino la rappresentazione non è sempre armonica e quindi non è completamente bella. Tuttavia sono nati di fatto i primi pre-concetti della conoscenza razionale. Si tratta ora di sceglierli e di metterli in chiaro con un lavoro di purificazione della affettività e di precisazione dei vari componenti che costituiscono la realtà. In ogni caso, il vero, il bene e il bello costituiscono fin da questo momento i principi o le leggi su cui si basa la conoscenza razionale.
La chiarezza della ragione va di pari passo con la purificazione dell’affettività e, a questo stadio della conoscenza, consiste nella de-fabulazione. La de-fabulazione non deve avvenire insieme ad una demitizzazione, ma proprio perché si defabulano i miti essi assumeranno una evidenza aggiunta ed una chiarezza diversa al punto che bisognerà indicarli con un altro nome, ma a questo stadio della conoscenza bisogna ammettere che i miti, pur essendo ‹perfezioni-imperfette›, non sono del tutto falsi e sono necessari. Il bambino e l’affettività bambina vogliono rivolgere i moti dell'affettività rappresentati dalla fiducia speranza e benevolenza a qualcosa che meriti queste attenzioni e non solamente ad una realtà ancora oscura ed imperfetta. A questo punto della conoscenza, in sunto, il bambino può raccogliere in uno stesso gruppo quelle immagini, che hanno un aspetto simile e che hanno risvegliato in lui un’affettività dello stesso tipo, e conseguentemente rapportarsi ed agire con le realtà del medesimo tipo allo stesso modo, ovverosia, a costituire conoscenze uguali per gruppi di realtà simili. Si tratta di un raggruppamento ancora confuso che tuttavia corrisponde ad un’unica icona-mito riassuntiva di tutte le immagini che hanno contribuito a disegnarla.
Conoscenza concettuale
Il fanciullo trova in seno ad ogni icona delle immagini più o meno chiare e delle affezioni più o meno soddisfacenti; per questo, se quando ancora bambino osservava la realtà in rappresentazioni successive senza preoccuparsi di paragonarle tra loro, ora è portato a stabilire una successione in base alla chiarezza razionale ed alla scelta affettiva. Nasce così la conoscenza concettuale. In altre parole, il bambino ormai diventato fanciullo, non considera più le realtà come successive, bensì le mette tra loro a confronto: esse diventano non solo delle ‹realtà-viste›, ma anche delle ‹realtà-valutate›, cioè realtà simili, ma con un valore diverso.
Con la conoscenza iconica il bambino aveva conosciuto ‹realtà-dono›, il fanciullo, ora, conosce ‹realtà-valore›, in altre parole egli riconosce il dono come una risposta adeguata alle sue necessità.
La conoscenza iconica aveva educato il bambino a scegliere realtà-rappresentazioni come icone, ora, la conoscenza concettuale presenta al fanciullo un altro compito ed un diverso impegno, offrendogli una quantità senza numero di realtà, ciascuna con un valore proprio, ovverosia con un ‹proprio› valutabile per grandezza e per importanza, egli è chiamato così a riconoscere il proprio e a certificare il valore delle singole realtà, al punto che se volesse negare il proprio distruggerebbe la realtà stessa, perché la ‹muterebbe› in una realtà così diversa da imporle una ‹natura› che la cambierebbe in qualcosa del tutto eterogeneo da come era prima.
La conoscenza concettuale, quindi, porta un nuovo ordine nelle realtà.
L’ordine della conoscenza iconica consisteva in una disposizione fittizia e confusa delle realtà, che si manifestava nel cercare e riconoscere un posto ed un tempo adatto per loro – tempo e spazio non sono cose, ma ordine sia delle cose, sia delle persone. Con la conoscenza concettuale l’ordine non è più fittizio, tuttavia è ancora arbitrario e soggettivo, in altre parole, dipende dal soggetto che assegna un ordine alla realtà, come egli la riconosce, paragonandola con le altre in base al valore che essa possiede nei propri riguardi.
A questa età nasce a poco a poco il concetto di numero, che è un modo di assegnare un termine o un simbolo, non alle cose, ma all’ordine delle cose, secondo una misura e non più solamente secondo una rappresentazione.
In pratica il bambino aveva un suo rapporto personale e reale con le varie cose e con i suoi simili, ma ora egli conosce anche il rapporto reciproco delle varie realtà e si rapporta a questo rapporto. Mentre l’immagine iconica costituiva un rapporto del soggetto con l’oggetto, ora il ‹concetto› permette un rapporto con i rapporti e rende conto del molteplice secondo un ordine, nel quale le cose sono interdipendenti. Il proprio delle varie realtà le differenzia, mentre il valore le collega, tra loro e con il soggetto che le conosce. In questo modo, le realtà, soggetto compreso, sono insieme perché si scambiano dei valori e sono separate perché li assumono secondo un valore proprio degli oggetti per ricavarne un utile soggettivo.
Mentre la conoscenza iconica aveva creato le immagini e le icone della realtà, la conoscenza concettuale costruisce verità scientifiche. In pratica le realtà sono valutate in ordine alla soddisfazione del soggetto che le conosce e che le sceglie secondo questo nuovo ordine. In questo modo l’ordine spazio-temporale viene sostituito da un ‹essere ordinato a…›, ovverosia il soggetto riconosce alle realtà un soddisfacimento che è oggettuale perché è proprio della realtà, ma che corrisponde alle soddisfazioni delle istanze razionali e delle attese affettive del soggetto. Le realtà provocano quindi con il loro rapporto una possibilità di essere utilizzate, in pratica producono un effetto. La realtà a volta, a volta, è quindi una causa e noi la chiamiamo causa efficiente. Essa non può operare all’infuori delle sue possibilità, per questo il soggetto sceglie tra realtà diverse per avere cause diverse, ma non può cambiare le cause e gli effetti di quella realtà che ha scelto. Da questo punto di vista la causalità è obbligatoria e necessaria mentre è soggettiva e, in un certo senso, libera, poiché la stessa scelta da parte del soggetto avviene nello stesso tempo tra diverse realtà e diversi valori e, soprattutto, è determinata da un soddisfacimento soggettivo.
Da queste considerazioni si capisce come l’ordine della conoscenza concettuale si basa su due grandezze: 1) il grado di utilità che dipende dalla ragione e dalla affettività del soggetto e 2) dalla quantità e dalla qualità di valore che dipende dalla realtà. Tra valore e utilità ci dovrebbe essere sempre corrispondenza e, quando manca, diventa necessaria una correzione. È questa correzione ad educare il fanciullo che, per perfezionare la scelta è obbligato a sottoporsi ad un lavoro ascetico che renda sempre più chiara la razionalità e sempre più pura l’affettività. In altre parole, il soggetto è sollecitato dalle realtà a considerare l’utile soggettivo come una corrispondenza ed una manifestazione del proprio dell’oggetto, mentre se egli cercasse un valore esclusivamente soggettivo-egoistico, rischierebbe di snaturare la realtà stessa e di travisarne la conoscenza che, in questo modo, perderebbe il carattere di verità scientifica. Come la conoscenza iconica aveva insegnato al bambino la de-fabulazione e la simbolizzazione, ora la conoscenza concettuale insegna al giovane la de-erotizzazione affettiva (temperanza) e la misura razionale (convenienza). In pratica, non ci può essere una conoscenza concettuale se non è accompagnata da una de-erotizzazione irrinunciabile e dal riconoscimento di un utile comune.
Conoscenza eidetica o delle idee
La conoscenza iconica nasceva dalle necessità del bambino che fungevano da domande che trovavano una soddisfazione nelle risposte della realtà. La conoscenza concettuale nasceva dalla scelta di risposte più adeguate con una soddisfazione maggiore, resa possibile dall’offerta di una molteplicità di valori reali. Ora, il passo successivo dello sviluppo cognitivo consiste nella conoscenza eidetica che nasce dalla necessità di agire una realtà agente. Con essa, il soggetto non solamente attende o sceglie le risposte della realtà, ma si industria di trovarle anche quando la realtà sembra muta. Il soggetto ha imparato che da una parte esiste una realtà efficiente e ora capisce che egli stesso deve essere efficiente anche nel chiedere. In altre parole non deve cercare solamente rappresentazioni o valori, ma anche le cause migliori di effetti maggiori.
L’ordine dello psichismo iconico era dispositivo, quello della razionalità concettuale era valutativo, quello della conoscenza eidetica è effettivo. Il primo cercava nel molteplice il più rappresentativo, il secondo il più valido, ora, la conoscenza eidetica ricerca tra il molteplice una causa, sotto la quale radunare cose simili – per esempio dice: „questa cosa è buona, ovverosia produce quel dato effetto buono“ – in questo modo non immagina una rappresentazione, non cerca un valore, ma mette l’oggetto nella condizione di essere un esempio, ovverosia gli riconosce una ‹esemplarità› – non solamente conosce ma anche riconosce, cioè si accerta, attesta e obbedisce al suo esempio.
L’ordine iconico era spazio-temporale per la ragione e formale per l’affettività, quello concettuale era logicamente valido e affettivamente utile, con la conoscenza eidetica la ragione formula delle idee sulla base della causalità e l’affettività costruisce degli ideali sulla base della esemplarità. Mentre l’ordine iconico era occasionale e quello concettuale necessario, l’ordine della conoscenza eidetica è unitivo e distintivo. Con essa, infatti, il soggetto analizza il particolare di ogni singola realtà per ritrovarlo nella generalità come rinnovata descrizione e ulteriore spiegazione di tutte le altre realtà che sono collegate alla singola dalla medesima efficienza: in pratica, riunisce le cose sulla base della loro causalità per la quale esse concorrono ad ottenere un medesimo effetto. Per esempio il pane può essere di qualsiasi forma e di qualsiasi sapore, ma è un ‹alimentare› perché consegue una nutrizione. In questo senso egli distingue, ma nello stesso tempo unisce, perché ogni cosa è conosciuta come esempio, solo se in connessione con le altre simili, con le quali concorre a definire la loro efficienza. In questo senso la conoscenza eidetica non costruisce più solamente conoscenze-mito, né conoscenze-scientifiche, ma ‹conoscenze-vere›, ovverosia conosciute con la ragione e ri-conosciute con la volontà e testimoniate con l’affettività. La ‹conoscenza-vera› è una sorta di entità reale perché nasce, avviene ed ha un ordine effettivo costituito da una unione tra soggetto e oggetto, il cui insieme è diventato una ‹unità›.
In pratica il soggetto che conosce una data realtà in questo modo vivrà sempre unito a questa conoscenza e non potrà più farne a meno, al punto che egli cambia il suo essere ed il suo esistere, per esempio, chi conosce il ferro diventa fabbroferraio e chi conosce il padre diventa figlio. La stessa realtà non è più quello che era prima, per esempio, il materiale ferroso diventa manufatto di acciaio e il generante diventa padre.
L’esempio sopra indicato mette in evidenza un ente ‹soggetto-oggetto› dove i due sono tra loro una ‹unità› e ‹distinzione›, perché il primo non può essere senza il secondo e perché l’uno è diverso dall’altro e, ancora perché non solamente il primo non può esistere senza il secondo, ma egli stesso esiste distintamente perché fa esistere l’altro rapportandosi con lui.
Riepilogo sulla conoscenza
Quanto esposto fin qui sulla conoscenza merita un riepilogo ed una precisazione.
A) la conoscenza iconica si presenta propriamente come una filosofia della imitazione, con una conoscenza razionale di rappresentazioni raffigurate da simboli e con una coscienza affettiva espressa da icone (icone di miti), il tutto in un contesto di ordine spazio-temporale. La scuola ed il gioco (interesse e curiosità) chiariscono i simboli e la de-fabulazione (attenzione) purifica i miti.
B) la conoscenza concettuale merita il termine di filosofia della corrispondenza, con una conoscenza concettuale, un giudizio valutativo (di valori) – non più solamente una coscienza, ma un giudizio quantitativo che non esclude la coscienza – e un ordine scientifico, ovverosia distinto in tante spiegazioni e in altrettante precisazioni analitiche. Il discorso colloquiale (contrattazione - dialettica) chiarisce i concetti e la de-erotizzazione (temperanza) purifica i valori.
C) la conoscenza eidetica consiste piuttosto in una filosofia della attuazione, con una razionalità deduttiva e induttiva, nel senso che agendo e ipotizzando deduce perché si basa sulla conoscenza causale e formula idee, mentre con una affettività che valorizza induce e agisce ideali, secondo l’ordine della giustizia, che riconosce il proprio ontologico (la natura) delle realtà. Il finalismo chiarifica le idee, mentre la de-possessione insieme alla testimonianza e alla correzione reciproca (tra soggetto ed oggetto) purificano gli ideali.
Il termine di filosofia può essere sostituito da quello di razionalità, perché non si può parlare di filosofia prescindendo dal filosofo che la vive e ogni uomo che vive la sua esistenza è dotato di una ragione che è diversa nelle diverse età del suo sviluppo. In questo senso non esiste una sola filosofia, ma altrettante filosofie quanti i giorni della vita di un uomo.
Il processo cognitivo Gnoseologia
Vocabolario dei termini cognitivi
La definizione dei termini usati nel brano che segue ne renderà la lettura più facile e più comprensibile.
Intuizione: visione sintetica delle caratteristiche (proprietà naturali) del conoscibile. Genera il pensiero.
Percezione (sensibile): Visione delle qualità esteriori del conoscibile. Permette la raffigurazione.
Comprensione (intellettuale): visione analitica delle qualità del conoscibile. Formalizza la corrispondenza. Permette la ripetibilità.
Interpretazione: visione analogica voluta dall'oggetto conosciuto e desiderata dal soggetto conoscente delle peculiarità (ordine autoritativo) del conoscibile. Induce le riflessioni.
Cognizione. La tecnica del conoscere (Erkenntnis).
Gnoseologia. Apprendimento razionale. Uso della ragione. Sinonimo di cognizione.
Conoscenza. ‹Con-conoscenza› Acquaintance, Bekannschaft. Questo termine non dovrebbe essere usato al posto di cognizione.
Sapere. Avvertenza e approvazione del conosciuto.
Comunicazione. Comunicazione riferita di una conoscenza.
Comunione. Comunicazione vissuta di una conoscenza.
La cognizione
Noi abbiamo descritto fin ora la conoscenza come se fosse una sorta di ‹manufatto› – ovverosia un prodotto intellettuale – costruito da due persone, oppure tra una persona e una data realtà. Il manufatto è l'ente che nasce dall'unità tra conoscente e conosciuto, che non è solamente un dato di ragione (intellettuale), ma è anche un dato di fatto reale, pratico e concreto. In questo senso, abbiamo descritto i risultati della conoscenza e il loro valore pratico, vogliamo ora prendere in considerazione il processo cognitivo, ovverosia il metodo e i mezzi a disposizione dei costruttori della conoscenza e la loro abilità nel saperli usare.
Si tratta quindi di studiare 1) i metodi (le modalità del conoscere) 2) le capacità di chi li sa usare.
Modalità cognitive
L'uomo comincia a usare le gambe prima di sapere come si muovono e impara dai suoi risultati il modo migliore per camminare; anche noi vorremmo descrivere le modalità della conoscenza, cominciando fin dai suoi tentativi iniziali, per accompagnarla nel suo perfezionarsi.
Una persona che conosce, prima vede, poi vede meglio, ossia si fa attenta e, infine, impara quel che voleva conoscere.
Il conoscere comincia con l'esperienza, si affina con l'intenzionalità, si conclude con il raggiungimento di uno scopo. Si tratta di un metodo analitico. la persona che conosce esamina e distingue tutti i particolari secondo il loro succedersi, ovverosia li spiega se sono accartocciati tra loro, per definirli con precisione e per rendersi conto della loro connessione. È inutile voler unire conoscente e conosciuto senza precisare ciò che appartiene diversamente all'uno e all'altro e senza comprendere come le loro differenti partecipazioni vadano tra loro d'accordo. In questo senso si tratta di capire il problema dell'‹unità-distinzione›.
La conoscenza analitica spiega ed è la conoscenza scientifica per eccellenza. Per condurre in porto questo ‹lavoro› è necessario avere a disposizione un certo tempo e la possibilità di una certa verifica. Il metodo più semplice consiste nella ripetibilità del lavoro fatto. Ciò che è ripetibile è anche semplice, ovverosia distinto e spiegato, mentre ciò che s'ingarbuglia nelle diverse occasioni, non è ancora spiegato e tanto meno compreso in un unico ordine. Il vedere diventa così provare e l'esperienza diventa sperimentare (esperienziale). Non si tratta in quest'occasione di ricercare lo scopo e le cause, bensì di trovare il principio e il fine di ogni spiegazione, ma in questo modo dall'esperienza si passa alla comprensione e dall'abitudine si impara una memoria. L'importante è comprendere cosa significa parlare di esperienza. Si tratta di osservazione di studio e di verifica, ovverosia di percezione, comprensione e sincerità. Il non voler vedere, il non distinguere e il confondere sono il miglior modo per non saper usare la cognizione, precludendosi la possibilità di arrivare alla conoscenza stessa, intesa come processo costruttivo dell'‹ente conoscenza› (acquaintance).
Ogni conoscenza presuppone una modalità: chi non la tralascia diventa ‹competente›, nel senso che ha acquistato una competenza tecnica.
Capacità cognitive
Senza attenzione non c'è osservazione. Senza tempo non c'è memoria. Senza un fine non si conclude mai. Il conoscente può usare un metodo perché inizia e finisce, ma in questo caso va in cerca degli inizi necessari e dei fini conseguenti. Tutto questo presuppone un ordine e un ordinare. La differenza tra spiegare e ordinare è analoga a quella che esiste tra il disporre e il misurare. La misura giustifica la spiegazione e la spiegazione prevede e riconosce un ordine. la spiegazione inoltre accetta con pazienza, mentre l'ordine fin dall’inizio dispone con energia e con volontà. La capacità di conoscere aumenta con l'ordine e con la buona volontà. ‹Buona›, in questo caso, non perché sia originariamente un bene, ma perché è indirizzata a un consenso e a una concordia pacifica, senza odio e senza rimostranze. L'ordine è il regno delle virtù e richiede un continuo rimediare al disordine per liberarlo da tutto ciò che lo impedisce. In pratica ogni capacità cognitiva dipende anche dalla coscienza come ogni modalità dipende dalla cognizione razionale (metodo cognitivo), la prima si purifica con l'esercizio, il metodo si migliora con l'esperienza. Chi ha trovato la pace in coscienza è esercitato e forte perché vive abitualmente le virtù come un buon amministratore, ma è anche competente perché possiede un metodo per assicurarsi lo steso ordine, perché è giusto nelle scelte e capace nelle ragioni.
Realtà cognitiva
La terza condizione per muovere il meccanismo necessario per la costruzione della conoscenza (acquaintance) non è un mezzo e nemmeno una energia, ma è quella materia prima o quel materiale che è necessario al funzionamento dei mezzi. È ovvio che noi possiamo conoscere quel che vediamo 1) per via della sensibilità e 2) perché lo vogliamo, ma questo è 3) possibile solamente perché noi possediamo la vista, ovverosia possediamo una natura con le proprietà visive e solamente perché il conoscibile ha la proprietà di rendersi visibile. In pratica noi conosciamo realtà e persone non solamente perché esistono per noi, non solo perché noi le scegliamo, ma anche perché sono una realtà o una persona.
Considerando queste parti ‹macchinose› della cognizione ci accorgiamo subito che noi stessi insieme a loro componiamo una macchina sola, che funziona per come essa è costruita sfruttando le 1) le qualità di chi la usa che si combinano con le qualità del ‹lavorato›, secondo un 2) un ordine, che è predeterminato dalle 3) proprietà insite nella macchina e nel materiale in lavorazione. In altre parole, uscendo dalla metafora: la conoscenza comincia sempre con un rapporto qualitativo, ossia è una percezione di qualità. Questo rapporto ammette un ordine di qualità-valutate che, una volta stimate, rivelano la loro peculiarità, ovverosia che sono preziose. Le qualità si percepiscono, le peculiarità si pesano, cioè si misurano in base a un campione che definisce le interpretazioni ‹volenti› di un conoscibile ‹voluto› o meglio scelto. L’ambito della scelta dipende dalle proprietà naturali del conoscente e del conoscibile.
A riprova di questo assunto, se fosse necessario, è il dato di fatto che senza qualità non si percepisce alcunché mentre, se le qualità non sono ‹ordinate-a› non possono essere interpretate e, se non poggiassero su delle proprietà naturali sarebbero instabili e irreali, senza la possibilità di collaborare alla costruzione della conoscenza. Solamente in questo senso le realtà e le persone permettono quell’intuizione che li vede conoscibili ancor prima di essere conosciute per quel bene che possiedono.
Con questa descrizione del processo cognitivo abbiamo distinto tre diverse modalità della stessa conoscenza come percezione, interpretazione e intuizione. Si tratta ora di osservare e descrivere in particolare e con maggior precisione il loro ‹funzionare› in seno alla conoscenza stessa.
Prima di chiudere questa breve nota sulla cognizione (gnoseologia), ossia sui modi e mezzi necessari per la conoscenza è opportuno aggiungere una chiosa importante. Infatti, la nostra esposizione potrebbe risultare troppo semplice come se la conoscenza fosse una favola o un’esperienza gratificante anche se laboriosa. In effetti, conoscere significa non solo distinguere e spiegare con l'indagine analitica della scienza, ma contemporaneamente non disgiunto dal produrre con una esperienza sensibile sempre provata e sempre corretta e, ancora, nello stesso tempo, se non manca di una volontà e di uno scopo. In questo modo ‹l'insieme-contemporaneo› diventa un esempio tra i vari esempi della vita non solamente umana, ma dell'intero universo. In altre parole, se saggiamente interpretati, i metodi stessi risultano esemplari, come se indicassero un modo di procedere universale. In questo senso la conoscenza è una storia fondata su una costruzione induttiva e intuitiva, raccontata da una logica che la comprende e illustrata dagli esempi che la indicano e la prescrivono. L’analogia dei tre congegni che lavorano insieme come se fossero un'unica macchina non è una fantasia fiabesca, ma il racconto di una realtà intravista fin dal principio, quando ancora non era stata del tutto compresa e ancor meno costruita. Infatti, certi temi difficili si capiscono man mano che si svolgono e si semplificano man mano che si riflettono, senza ovviamente tralasciare di pensarli e di chiarirli. È l'‹insieme› tra ragione natura e volontà che permette alla ragione di formulare una esposizione di quelle verità che sono eterne, sebbene ancora non del tutto chiare, perché generate da un lavoro induttivo di una natura producente e sulla base di un ordine analogico previdente. La sola ragione alle volte può sembrare deficitaria, mentre invece per il fatto che non è disunita dalle altre distinzioni del ‹sinolo-uomo› (dell'‹unità-uomo›), non manca nemmeno di essere di per sé sufficiente e in ogni caso sempre necessaria.
Vale la pena quindi di soffermarsi su questo insieme di diversi, che più propriamente si chiama con il termine di ‹unità-distinzione›.
Unità - distinzione
Esistenza - consistenza - riflessione
Fin ora noi ci siamo preoccupati di raggiungere una certezza che ci assicurasse di una corrispondenza tra ciò che ci pareva di vedere in confronto con ciò che il nostro corrispondere ci lasciava vedere e l'abbiamo trovata nel fatto stesso che noi potevamo costruire in qualità di soggetti insieme al nostro interlocutore come oggetto una nuova realtà pratica, ovverosia usabile e operabile, che era valida sia per noi sia per l'altro conosciuto; ebbene, questa stessa conoscenza ci ha rivelato nel corso e nello spiegarsi della sua costruzione esistenziale che noi potevamo trovare in essa una riflessione del nostro conoscere e nello stesso tempo una consistenza del conosciuto.
Come fin ora ci siamo rivolti a considerare con attenzione questo evento cognitivo, dobbiamo ora prendere atto del conosciuto costruito come consistenza e della relazione con il corrispondente conosciuto come riflessione del nostro averlo conosciuto.
In altre parole, noi ci chiediamo se il conosciuto fosse reale e avesse una sua esistenza prima di esser stato visto da noi, oppure se l'avevamo creato noi stessi nell'atto di conoscerlo?
La risposta viene dai fatti stessi nel modo in cui si sono realizzati. Che noi esistessimo già prima di conoscere è indubbio, perché la nostra esistenza ci ha permesso di conoscere e ci ha accompagnati nell’esecuzione della stessa conoscenza, mentre la realtà dell'esistenza dell'oggetto conosciuto dipende dalla necessità della sua corrispondenza alla comune costruzione del conosciuto, tanto che, proprio per questo, noi abbiamo individuato nella nostra relazione o nel nostro rapporto una corrispondenza già ordinata al conseguimento della conoscenza stessa. In base a questa constatazione ci troviamo davanti a una consistenza del soggetto conosciuto pari a quella di noi stessi conoscenti, così come non possiamo negare l'ordine che ci ha permesso la conoscenza stessa.
Il problema non sta nella consistenza dell'oggetto conosciuto, caso mai nella possibilità di avvertirla.
Già prima di iniziare la conoscenza noi abbiamo parlato di una precognizione affettiva che ci disponeva a comunicare la nostra esistenza cognitiva a quella dell'oggetto conosciuto spinti dal desiderio di partecipare della sua realtà e prima ancora avevamo supposto che questa partecipazione risultasse un dono per noi, ma tutto questo si ripropone ora alla nostra attenzione ragionevole e alla nostra riflessione volitiva come se fosse una nuova questione che vuole sapere se oltre alla conoscenza razionale (fin qui presa in considerazione)ne esistano altre diverse e distinte. In effetti noi ammettiamo in pratica anche una qualche conoscenza reale e una conoscenza affettiva che accompagnano quella razionale per poterci spiegare le loro caratteristiche e per poter usare con più discernimento le loro peculiarità.
Anche a questa domanda noi abbiamo in parte e di sfuggita dato una risposta, per esempio, illustrando la differenza tra una conoscenza razionale e un’intuizione affettiva, si tratta ora di prenderla in considerazione per spiegarla in modo più evidente.
Esperienza - significato - intuizione
Ogni conoscenza è una comunicazione tra conoscente e conosciuto che avviene nell'ambito e nel campo dell'esistere.
L'esistere a sua volta è una distinzione dell'unità ‹uomo› e l'uomo, a sua volta, è una distinzione di quell'ente conoscenza che si chiama ‹umanità›.
La comunicazione in seno a questa conoscenza è una partecipazione e un’amministrazione in comune tra conosciuto e conoscente di ciò che è stato conosciuto dai due interlocutori in unità, persone o cose che siano. In altre parole l'uomo comunica quello che egli personalmente ha conosciuto ai suoi interlocutori e, in questo modo, costruisce la società e aumenta l'umanità.
D'altra parte l'uomo non comunica se stesso, ma ‹un-se-stesso-distinto›, perché la comunicazione fa parte di una distinzione (l'esistere razionale) del sinolo uomo, ma non solo, anche l'interlocutore riceve la comunicazione e la comprende in modo diverso passandola attraverso il filtro delle proprie distinzioni.
Mi spiego meglio esemplificando una comunicazione nei suoi particolari.
Il soggetto conoscente riceve una comunicazione dall'oggetto conosciuto dapprima come ‹esperienza› secondo il proprio esistere. Si tratta di un processo deduttivo che chiarisce e precisa. Successivamente, quando chi ha conosciuto comunicherà ai successivi interlocutori questa esperienza fatta, userà una spiegazione che riflette la precisazione che egli ha sperimentato.
Il conoscente tuttavia non ha solamente conosciuto sperimentalmente, ma ha anche completato questa conoscenza ricevuta per mezzo delle altre sue distinzioni che non si sono comportate passivamente.
Dobbiamo quindi esaminare completamente la conoscenza di un oggetto da parte di un uomo: in un primo tempo è sperimentale, ovvero deduttiva in cerca di precisazioni, che di per sé sono confronti e puntualizzazioni di diversità nei riguardi di altre conoscenze simili. Questo lavoro sui dati conosciuti diventa materia di comunicazione dell'‹esistere› razionale del soggetto per il proprio ‹essere› che s'incarica a sua volta di lavorarla per renderla produttiva, ovvero ‹significativa›, cioè per aumentarla come un bene effettivo e non solamente come una comprensione logica e, così facendo, diventa induttiva. In questo secondo passaggio la conoscenza da ‹sperimentale› – compresa, cioè presa con gli organi della sensibilità – si cambia e diventa ‹riflessa› altrimenti non sarebbe né produttiva, né efficiente.
In modo simile, ma diverso, l'‹esistere› razionale comunica al proprio spirito la sua stessa esperienza e lo spirito la ‹legge› a modo suo come ‹interpretazione›, che ha un riscontro diverso dal produrre e dallo spiegare, perché l'interpretazione è una conoscenza induttiva che trova le sue basi e le sue giustificazioni non nel simile esistenziale, e nell'essere reale, ma nell'ordine analogico.
Riassumendo: quando il soggetto conosce una realtà acquista una comprensione prima sperimentata, quindi riflessa e, anche, interpretata, a questo punto quando egli comunica a un suo simile, in veste di interlocutore, la conoscenza fatta, ne parteciperà primariamente l'esperienza, ma non sottacerà il significato e la propria interpretazione che ha ricevuto dall'oggetto conosciuto.
Partecipando l'esperienza, la comunicazione diventa spiegazione aggiunta di precisazioni, partecipando la riflessione la comunicazione diventa un fare insieme, ossia una sorta di comunione-tecnica, mentre partecipando l'interpretazione la comunicazione coinvolge commuove come una poesia e si trasforma in arte.
Tutto questo discorso è nato dal fatto che qualche filosofo, se ho ben capito, sembra affermare che l'interpretazione ha in sé qualcosa di negativo, nel senso che deforma l'originale conosciuto, ma le cose non stanno così, infatti senza comunicazione intra-personale e inter-personale (interiormente e esteriormente riflessa) ogni conoscenza morirebbe, perderebbe qualsiasi fondamento e si priverebbe di ogni sviluppo. Altri filosofi poi riferiscono che l'interlocutore nell'apprendere una conoscenza, quando a sua volta la interpreta, può perfino comprenderla meglio della stessa persona che gliela ha riferita. In questo modo lo stesso termine di interpretazione è insufficiente a descrivere la conoscenza, infatti, se essa è stata comprensiva e nello stesso tempo produttiva e intuitiva il suo risultato consiste in una comunicazione che è anche interpretazione, ma che è vera solamente nell'ambito di una ‹comunione›. La comunione a sua volta nell'ordine del personale e del reale è già costruzione di unità che è aperta all'universale.
Tutto questo sembra un pertugio aperto sul panorama della ‹unità-distinzione› che noi non abbiamo mai il coraggio di ammirare in tutta la sua bellezza e la sua immensità.
Dalla cognizione alle ‹conoscenze›
Premesse per una conoscenza delle realtà naturali
Dopo tutte queste riflessioni che riguardano il conoscere non abbiamo ancora detto che cosa conosciamo. A questo proposito abbiamo già accennato come la lingua tedesca e quella inglese usano due vocaboli diversi per due significati altrettanto diversi che la lingua italiana riunisce invece in una omonimia.
I termini Bekanntschaft e acquaintance indicano una sorta di rapporto costruito come se fosse un nuovo ente che nasce dal modo di conoscere, mentre il modo di conoscere viene chiamato Erkenntnis e knowledge.
Fin ora abbiamo preso in considerazione maggiormente lo sviluppo della razionalità umana, successivamente abbiamo descritto alcuni cenni sul metodo, modo, processo, ovverosia Erkenntnis che è sinonimo di razionalità, volgiamo ora la nostra attenzione ai risultati cognitivi del tipo Bekanntschaft o acquaintance.
In ogni caso, da tutte queste riflessioni appare evidente come l’uomo si trovi sempre nella tentazione di fermarsi ad una conoscenza limitata alle qualità evidenti, anche se rinviano alle caratteristiche naturali delle proprietà reali. Infatti, abbiamo fin qui considerato come tra qualità effettive o soddisfacenti e proprietà efficienti o naturali ci debba essere una corrispondenza, ma nello stesso tempo ci siamo accorti che la conoscenza di questa corrispondenza non è mai completa e perfetta. Ebbene, per arrivare a una conoscenza il più possibile completa ed esauriente dobbiamo necessariamente rivolgerci alle stesse realtà conosciute per prenderle in considerazione. Esse appartengono, per così dire, a tre mondi diversi:il mondo della natura, quello propriamente dell’uomo e, non ultimo, il mondo della cosiddetta metafisica. A proposito di quest'ultima realtà, se non altro per accertarsi della sua eventuale esistenza, dal momento che alle volte è stata messa in dubbio da qualche filosofo.
La conoscenza sensibile
A un modo di considerare il problema della conoscenza così com’è stato esposto si potrebbero fare molte obiezioni: qualcuno non avrebbe difficoltà ad ammettere che la conoscenza implica l’impegno di tutto l’uomo, ma aggiungerebbe che non solamente all’inizio è limitata al solo sensibile, ma che è la sola sensibilità che la rende possibile, perché i sensi sono il mezzo sufficiente a questo scopo. Un’obiezione del genere, per quanto discutibile, è pur sempre valida, tuttavia anche se gli inizi fossero puramente sensibili, si tratta sempre di conoscenza e non solo di sensibilità. Anche una persona che dorme non perde la sensibilità, ma non usa la conoscenza. Quel che differenzia la sensibilità animale dalla sensibilità umana è che quella propria dell’uomo è già dagli inizi ordinata alla conoscenza, mentre quella degli animali è predisposta solamente per una risposta riflessogena di natura puramente neurale, senza conoscenza né coscienza, ma solamente corrispondente a una reazione del tipo stimolo-riflesso che non è controllata dalla ragione né ordinata dai sentimenti. La sensibilità umana è una facoltà di un vivente che ha una volontà e una natura che non dorme nell’atto del conoscere fin dai suoi inizi. Disposizioni queste diverse dalla volontà e dalla natura di Dio, ma non completamente dissimili da lui se l’uomo è stato creato a sua immagine, mentre non si può sostenere che un animale o un robot sia l’immagine dell’uomo, se non da un punto puramente fisico o meccanico.
La conoscenza inizia, quindi, quando l’uomo usa la sensibilità e non quando la sensibilità usa l’uomo. in pratica l’uomo non possiede idee innate, ma mezzi innati per costruire le idee. Questo non significa che egli costruisce il mondo che conosce; egli non è l’architetto della natura tanto d’aver la facoltà e il diritto di dettarle legge, ma usa gli strumenti che ha a disposizione per comprendere le leggi che ordinano la natura e le relazioni naturali. Nemmeno la realtà esterna può imporre all’uomo leggi alcune, come se le potesse emanare, altrimenti ci troveremmo in un mondo curioso, se non ridicolo, dove chi conosce non comanda e chi è comandato non è conosciuto. Si tratta di quel mondo inusitato, dove quell’uomo, che vuole sfruttare la natura senza legge né fede, crede di poter comandare a suo talento e si comporta con prepotenza come chi crede di poter dominare e, invece, rischia di trovarsi in mezzo a gente e a cose che gl’impongono il loro dominio, dove nessuno vorrebbe obbedire e tutti credessero di poter comandare.
In altre parole l’uomo può scegliere qualsiasi conoscenza per costruirla come gli pare tuttavia solamente nei limiti delle sue capacità e nei limiti del suo interlocutore. Un uomo non può volare buttandosi dal balcone, semplicemente perché non ha le ali, ma può conoscere il volare nei limiti delle sue capacità naturali e nei limiti delle capacità naturali del mondo aereo in cui vive. Se non ci fosse un ordine prestabilito, lo avrebbe dovuto costruire prima di iniziare qualsiasi conoscenza, ma questo è impossibile tanto è vero che anche ora non riesce a cambiare nemmeno quell’ordine che ha ricevuto senza nemmeno essere interrogato. È impossibile che tutti gli incapaci possano dettare una legge all’insieme della totalità conoscibile, mentre è necessario che una sola ‹Capacità-Totale› lo possa volere perché lo può.
È la nostra fortuna, sia il trovare una legge per poter agire, sia il sentirsi liberi di adottarla, sia il riconoscere le correzioni e i castighi nel rifiutarla. Ebbene, questa legge non è stata promulgata solamente da una natura e nemmeno da un suo legislatore mostruoso e brutale, bensì da un Essere intelligente e provvedente, almeno quanto basta per non danneggiare la sua previdenza. Gli antichi filosofi (gli stoici) raccontavano a proposito la favola del conducente del carro della natura con le redini in mano, che qui in parte riporto dopo aver introdotto una variante per salvare la libertà dell’uomo e la sua partecipazione responsabile nell’insieme dell’ordine universale (Le favole del paginario).
Il carretto del contadino (favola)
C’era una volta un contadino che tornava a casa seduto sul suo carretto, tirato da un bue che andava avanti adagio, ma con sicurezza, obbediente com’era sempre stato ai comandi del padrone; poi, legati al carro, c’erano ancora un cavallo che scalpitava perché la comitiva andava troppo adagio, un asino che resisteva perché faceva il Bastian contrario e, davanti a tutti, un cane che tirava con tutta la sua forza, solo perché voleva bene al suo padrone.
Il contadino, poi, con le redini in mano, avrebbe voluto lasciare a tutte le sue bestie la libertà di fare come il cane, ma in qualche modo doveva pur dirigere la comitiva e, allora aveva il suo da fare, a spingere il bue con il pungolo, a tenere a freno il cavallo con il morso e a ridurre con la frusta il somaro a buoni propositi, perché tutti tenessero il passo insieme, anche se si mostravano più rassegnati che convinti, salvo il cane che andava avanti volentieri, perché era d’accordo con il suo padrone. Alla fine del viaggio bue, cavallo e asino andarono a dormire nella stalla, il cane invece entrò in casa insieme al contadino, perché da sempre erano amici.
Ma, se la favola ha da significar qualcosa, può essere un esempio della libertà, non degli animali certamente, ma di tutti noi che, come loro, abbiamo ogni giorno il nostro carro da tirare avanti insieme.
Il problema ontologico
Si deve, quindi, ammettere che esistano rappresentazioni cognitive diverse per una medesima realtà, sia perché le realtà stesse sono diverse, sia perché la realtà è conosciuta con cognizioni diverse nelle diverse età dello sviluppo cognitivo,
In pratica lo stesso soggetto conoscente costruisce una conoscenza (acquaintance) quando vede un suo simile che è diversa da quella che costruisce quando vede un pezzo di pane, infatti, un uomo non potrà mai essere paragonato a un pezzo di pane e, ancora diversamente, vede e conosce sia il pane sia il proprio simile in modo diverso nelle differenti età del suo sviluppo cognitivo. La prima diversità dipende dal tipo di cognizione del soggetto, la seconda da tipo diverso dell’oggetto conosciuto.
Dobbiamo quindi prendere in esame le singole distinzioni per poterle determinare, ovverosia per poter assegnare loro un nome distintivo.
Cognizioni diverse nelle diverse età dello sviluppo razionale
Cognizione iconica
Il bambino può superare una conoscenza iconica per usarne una concettuale con il metodo dalla de-fabulazione, così facendo acquista la capacità di formulare due tipi di conoscenze diverse che cambiano la realtà sia del conoscente sia del conosciuto.
Tutti capiscono cosa sia la de-fabulazione: il bambino che desidera una data cosa, se non l’avesse a disposizione, la immagina come se fosse concreta e sul fondamento di questa fantasia la sogna come se fosse reale e si aspetta di ottenerla con la bacchetta magica, traendone speranze o delusioni che, alla sua età, sembrano logiche. La de-fabulazione consiste nel perdere i propri sogni e nel correggere le immagini formulate con la fantasia. Se egli aveva pensato che la sua barchetta si muoveva sulle acque dello stagno perché ha le gambe, ora non si accontenta di una supposizione e dopo aver controllato si accorge che il movimento dipende da un’elica. In questo modo il bambino diventa più attento e la realtà più concreta, tuttavia non si può affermare che il bambino abbia acquisito una verità scientifica del movimento delle navi in generali. La nuova cognizione ha perso la felicità del fantastico, mentre ha acquistato una certa gioia pacata insieme a una nuova ammirazione meravigliata che prima non conosceva. In questo modo assapora la gioia di un piccolo successo che lo accompagnerà nelle traversie delle scuole elementari per arrivare sui banchi delle scuole medie. Si tratta di una preconoscenza ontologica che gli permette di supporre che tutte le barche abbiano un’elica per muoversi che si potrebbe generalizzare con l’abitudine di simili osservazioni, ma che non gli permette di essere senza errori.
Più avanti nell’età, diventato fanciullo, potrebbe aver a disposizione un giocattolo più complicato per esempio quello di una barca con un motore elettrico per correggere le sue cognizioni, ma anche in questo caso le cose non cambiano del tutto.
Ogni conoscenza iconica presuppone una verità formulata sulla base di abitudini: queste abitudini sono più semplici, sono abbastanza vere, ma non sono mai provate.
Cognizione concettuale
Il giovanetto con un metodo ipotetico deduttivo per conoscere come si muovono i suoi giocattoli o la sua motoretta è pronto a sfasciarli per ricostruirli pezzo per pezzo e controllare come funzionano. In questo modo vede subito quello che è necessario e lo distingue da quello che è più attraente, ma non indispensabile. La realtà del giovane che possiede la conoscenza concettuale non è solamente vista, ma anche controllata. Egli non si accontenta con ciò che sembra, ma si aspetta ciò che a ragion veduta vuole perché lo ha già voluto e lo ha già provato. La conoscenza della verità poggia sulla possibilità di ripetere l’evento cognitivo. Egli sottoporrà la sua conoscenza ad una serie di prove per cercare il meglio mosso prima dalla soddisfazione di ottenerlo e poi dal controllo di quel meglio che è più utile e non più apparentemente utile mentre invece è solamente soddisfacente. In questo senso si sottoporrà a dei veri e propri esercizi ascetici per evitare il piacevole pur di non perdere l’utile. L’entusiasmo e la serietà delle sue conoscenze farà forse sorridere qualche incallito viveur, ma il giovane eviterà degli errori grossolani e conoscerà una verità provata anche se non ancora scientifica.
La conoscenza concettuale permette l’esperienza concreta di una realtà che è utile. Un giovane che mangia i dolci solamente perché sono gustosi rischierà in casi estremi il diabete, uno invece che si dedicherà a degli hobby che sono una sorta di pre-lavoro, oppure che si preoccuperà di riuscire negli studi ha già davanti ai suoi occhi una realtà che lascia intravvedere quelle proprietà caratteristiche che descrivono un bene e non solamente che promettono una soddisfazione. Il pane in questo modo diventerà un ‹nutrimento›, cioè sarà utile e non solamente piacevole. Tutto questo è frutto di un controllo ripetitivo che si accerta dopo aver supposto, ma che non suppone senza accertarsi. La realtà acquista in questo modo una consistenza più concreta. Cadono molte abitudini inutili. Il giovane va in cerca di soluzioni nuove e rimedia a conoscenze errate. Sopporta difficoltà e accetta correzioni, ma proprio per questo diventa più prudente pur non perdendo la semplicità del fanciullo. In questo contesto l’obbedienza indiscussa del bambino, alle volte più immaginata che provata, diventa meno testarda, ma più attenta. In poche parole se la conoscenza è diventata più vera anche il giovane è diventato più concreto.
Con la una cognizione matura la conoscenza diventa scientifica. Ogni singolo evento può meritare una analisi completa dal principio alla fine, dalle origini alle conseguenze. Nasce in questo caso non solo il controllo ripetitivo occasionale o limitato all’utile, ma anche il controllo di quegli inizi del fenomeno e di quelle conclusioni che permettono sempre la ripetizione in quanto sono testimonianze di proprietà naturali per distinguere quelle caratteristiche della realtà da quelle altre caratteristiche pur simili, ma improprie, che invece né permettono di supporre né promettono di ottenere conclusioni uguali per realtà equivalenti. In altre parole se il pane è un ‹nutrimento› è anche un nutrimento tutto ciò che ottiene le stesse conclusioni cognitive e se il ferro è un metallo, allora lo è anche il bronzo che ha le caratteristiche dei metalli. La realtà non è solamente provata dalle ripetizioni, ma attestata dalle stesse origini e dalle conseguenze, al punto che se ne mancasse anche una solamente si tratterebbe di un’altra realtà con una natura diversa, simile, ma non equivalente.
In questo senso l’elenco delle realtà diventa più preciso da un punto di vista delle cognizioni, ma è del tutto insoddisfacente dal punto di vista delle conoscenze.
Infatti, possiamo definire le realtà per quel che sono secondo le loro caratteristiche proprietarie e per quelle qualità che mostrano ma con questo non abbiamo ancora accertato lo scopo che cercavamo dalla conoscenza della realtà e se la stessa realtà ce lo può dare.
I costi della Cognizione
Questi tre perfezionamenti del metodo cognitivo sono resi possibili da una perdita di quegli impedimenti che ostacolano lo sviluppo cognitivo e l’acquisto di nuove capacità che lo permettono, ma che non dipendono strettamente dalla sola cognizione. In pratica ogni sviluppo della cognizione è accompagnato dall’adempimento aggiunto di una volizione scelta e approvata. Il soggetto conoscente può sviluppare la sua conoscenza sulla falsariga di un ordine che deve essere scelto se vuole ottenere gli scopi della conoscenza stessa. Una conoscenza senza uno scopo può sembrare sufficientemente descrittiva e, invece non ha l’energia necessaria per cercare né le qualità cognitive, né le caratteristiche reali, né l’ordine dei partecipanti, perché non include con una volontà esplicita la ricerca degli scopi della stessa realtà. In questo senso, quando abbiamo parlato di de fabulazione si sottintendeva una volontà aggiunta più concreta e meno illusoria.
Qualcosa di simile capita con l’erotismo. Il giovane che desidera un oggetto solamente perché gli piace, si ferma con la sua attenzione su quel ‹piacevole› come misura valida per scegliere una realtà che sia corrispondente. Questa stima e ricerca limitata al solo piacere si chiama erotismo. La de-erotizzazione, quindi, non consiste nel togliere o nel negare alla realtà gli aspetti utili che essa produce, al contrario interviene semmai per salvare l’utile, dopo una purificazione della conoscenza da quel ‹piacevole› che la limita in un ambito tutt’altro che soddisfacente, quando nasconde le proprietà naturali dell’oggetto conosciuto. In pratica con la de-erotizzazione si tolgono alla conoscenza i limiti dell’esperienza soggettiva e per questo non si sceglie l’erotico come misura e norma del rapporto. Quel che permette un rapporto reale, concreto e più completo del soggetto con l’oggetto non è una ‹misura› erotica – il massimo piacevole e il minimo spiacevole – ma consiste nell’ordine dove anche ciò che è piacevole non è erotico, ma ordinato al raggiungimento di uno scopo, che è stato prima supposto, poi cercato, infine trovato una volta e successivamente desiderato e ritrovato molte volte. In questo senso con la de-erotizzazione il rapporto tra conoscente e conosciuto diventa più concreto e la misura della realtà passa dal piacevole all'utile – il massimo utile e il minimo inutile.
Una considerazione analoga riguarda la depossessione. La persona matura che si è esercitata a costruire conoscenze (acquaintance - Bekanntschaft) de-erotizzate, impara dalla realtà stessa il modo più naturale e più ordinato di collaborare nella costruzione di un esistere comune tra conoscente e conosciuto. Perché questo possa avvenire è necessario ordinarlo non solo sul fondamento delle proprietà naturali degli interlocutori, ma anche su una loro partecipazione che sia quasi l’espressione di una depossessione personale per cambiarla in un possesso comune amministrato insieme. Per esempio, è evidente che nessun proprietario di azioni di una società commerciale sia l’unica persona che possiede l’intera società, ma non sempre è evidente che ogni azionista sia disposto a condividere gli obblighi societari tanto che, alle volte, potrebbe usare la sua parte di azioni in modo da gestire a modo suo l’intera società, come se egli ne fosse l’unico proprietario. Se questo può capitare nell’ambito commerciale, quando uno o pochi imponessero la loro gestione quasi per mezzo di un ordine soggettivo ai fini di un utile strettamente personale, a maggior ragione può capitare in quella partecipazione che è universale, dove invece i singoli dovrebbero ordinarsi come particolari di un insieme, che rappresenta una totalità, e non una somma di elementi divisi e incongruenti il cui possesso assomiglia ad una preda in battaglia. A questo punto, la pratica della depossessione è chiamata a rimediare a questo disordine. Il termine si riferisce a un pensare e agire che supera il soggettivismo e che aumenta la conoscenza delle proprietà fino a una fruizione comune e non limita la conoscenza a quel possesso che facilmente diventa dominio e abuso.
In pratica, se vogliamo costruire conoscenze effettive, dove soggetto e oggetto si possono completare a vicenda, è impossibile e disonesto riservarsi il diritto di giudicare in che modo questa partecipazione debba essere fatta, piuttosto la si deve volere personalmente in seguito a una scelta libera. La conoscenza è come un matrimonio e, se la sposa promette obbedienza al marito, il marito promette un incondizionato servizio alla sposa, ambedue secondo le leggi della natura e non secondo le fantasie delle soddisfazioni soggettive, infatti, ambedue vogliono conoscersi personalmente, vogliono corrispondersi in particolare e vogliono esser parte di un ordine universale.
Conoscenze diverse dei diversi oggetti conoscibili
Conoscenza delle realtà
Il significato del termine coscienza
Gli uomini hanno la conoscenza e la coscienza. Gli animali solamente una certa conoscenza senza coscienza, per questo ogni animale nel suo rapporto interlocutorio con le realtà reagisce in modo stereotipato, ma non volontario, senza scelta e senza affettività.
L'uomo invece ha un rapporto con la realtà esterna voluto e scelto, per cui diventa personale e non solamente reale. In questo senso due uomini che s'incontrano possono costruire conoscenze personali pur avendo la facoltà di limitarsi a formare una conoscenza nello stretto ambito reale, come per esempio avviene su un bus affollato tra due uomini che si urtano a vicenda: la reazione a questo urto è stereotipata e necessaria perché dipende dai riflessi posturali e propriocettivi di ciascun attore, può anche essere l'occasione di diventare una conoscenza, ma in questo caso abbisogna di un inizio voluto, seguito da una storia esistita e concluso con un fine scelto. Il fatto che questo rapporto sia voluto lo fa diventare una relazione che una volta allacciata è anche umana dove gli interlocutori sono partecipi e non solamente connessi.
Immaginiamo invece un uomo che abbia a che fare con un robot perfettissimo, come se fosse simile a un uomo, ma che mancasse di volontà affettiva; immaginiamo ancora che capisca le istanze umane e risponda al suo interlocutore intervenendo con consigli e con un aiuto pratico in ogni occasione, ebbene, questo robot non potrà partecipare a quel particolare che è il suo interlocutore semplicemente perché gli manca una antenna (una percezione) che possa rispondere a tutti i particolari dell'intero universale per il fatto che egli non può scegliere particolari sempre più generali e sempre più riflettenti l'ordine universale. La differenza quindi tra la risposta di un robot e di un animale da quella di una persona, sta nel fatto che la conoscenza è possibile solo da parte dell’uomo ed è sempre produttiva di miglioramento e di scelte, dettata da un ordine volontario e non solamente programmato da una segnalazione stereotipata. Questa conoscenza produttiva è un fenomeno ripetibile in ogni tempo e non solamente occasionale, ma non in un tempo limitato a qualche ora, altrimenti non sarebbe riflesso di un ordine universale. In altre parole è produttiva, solo se ha parte con una produzione universale che presuppone la Totalità. Questo significa che ogni conoscenza produttiva è la testimonianza di un ordine universale e la partecipazione a una Natura Omni-producente, senza alcun limite, perché supera la temporalità e la contingenza. In questo senso, pur limitando ad ogni singolo uomo ciò che lo distingue dalla Totalità, si deve ammettere che ogni conoscenza dei singoli particolari corrisponde (è vera) solamente se ammette prevede e sceglie l’Ideale della Totalità e della Perfezione, in una parola se confessa e testimonia l'esistenza di Dio. Se non esistesse l'uomo, l'intero creato non potrebbe dire la gloria di Dio, sarebbe solamente un quadro senza vita, o una robotizzazione di un operante ultraterrestre che tuttavia sarebbe solamente un meccanico che non amasse l'opera sua.
La conoscenza personale
Queste considerazioni sulla conoscenza delle realtà naturali da parte dell’uomo serve per capire meglio quella tra due persone. Infatti, anche l’uomo può essere trattato come se fosse un oggetto reale e quindi visto nell’ambito della sua necessarietà e nei limiti della sua corporeità, che limitano la conoscenza al ‹visibile› con i sensi, ma può anche essere conosciuto come un interlocutore libero che può fornire una risposta assertiva e consenziente, oppure oppositiva e negativa. In questo ordine di cose il rapporto cambia completamente e l’ente conoscenza che ne nasce rispecchia questa libertà, infatti, non è obbligatorio e necessario, ma dipende da una scelta libera sia personale, sia interlocutoria e concordata. Mentre l’ente conoscenza con le cose naturali era sempre pre-determinato dall’essere fisico degli interlocutori, quello tra due persone può essere programmato e auto-determinato. Non si tratta ovviamente di andare contro la natura di uomini, o di estraniarsi da essa, ma il loro stesso essere naturale prevede lo sviluppo di un esistere stabilito non da una legge necessaria, ma da un ordine che prevede la libertà, ovverosia la scelta tra efficienze ed effettività diverse. In pratica, le efficienze delle cose naturali sono senza scelta e necessariamente dipendenti da una regolazione di grandezze spaziali e temporali che producono effetti ripetibili, che non possono essere diversi per nature identiche, al punto che se cambiano gli effetti, allora si devono riferire a realtà altrettanto diverse; l’uomo, invece, è talmente libero che può andare persino contro la sua stessa natura, ovverosia può auto determinare il suo esistere quasi indipendentemente dal suo essere e sviluppare delle ‹qualità› che non sono adeguate alle ‹caratteristiche› naturali. Ovviante un uomo con uno sviluppo esistenziale, per così dire, ben riuscito, concretizzerà tutte le proprietà del suo essere, mentre chi sceglie un esistere, per esempio contro natura, può cambiarlo solamente limitandolo, ma non certamente acquisendo caratteristiche che non gli sono proprie. In pratica un uomo può scegliere alcune proprietà della sua natura, non può appropriarsi di quelle che non sono sue. Si tratta quindi di una scelta libera di sé, oppure di un’altra scelta altrettanto libera di ‹un sé-maggiore› o di ‹un sé-minore›. L’uomo non può diventare né un animale né un angelo, ma può ‹esistere› (tradurre in esistenza) il suo ‹essere› in vari modi. Questo per il solo fatto che egli oltre a quel tipo di natura che ha, possiede anche un ordine non necessario e non obbligatorio, ma secondo una legge di libertà.
Si tratta ora di mettere in evidenza in che cosa consiste questo ordine.
Intanto bisogna dire che il termine libertà è sinonimo di quello di volontà, ma poi a questo proposito, bisogna sempre ritornare alla considerazione delle efficienze di questo essere che è l’uomo e alle sue effettività.
Quali sono le effettività dell’uomo?
Cosa vuole scegliere l’uomo comune, con la sua efficienza, secondo il proprio modo di determinare un suo ordine, per realizzare un effettivo esistere?
La risposta è semplice: quello che voleva ieri e qualcosa di più.
Questo ‹qualcosa di più› è importante. Non è un aumento solamente di quantità, ma il più delle volte di qualità; in altre parole si tratta di un tendere verso la perfezione. Come per la quantità usiamo termini quantitativi – il metro e l’orologio –, così per la perfezione usiamo termini adeguati: si tratta delle virtù. Infatti, se l’uomo sceglie il progresso e tende a un continuo miglioramento, allora il termine che dice questo significato è quello di ‹volontà-amore› che indica non solo una scelta occasionale, bensì una scelta voluta, anzi eletta. Probabilmente questo vocabolo può sembrare insolito in uno scritto di filosofia, così, per evitare di essere accusati di stravaganza, possiamo sostituire questo termine con quelli che abbiamo usato fin ora di scelta, oppure altri termini nuovi come quelli che significano predilezione, dilezione, elezione, che esprimono i sentimenti di quella affettività propria delle sue virtù; tuttavia dobbiamo riconoscere che il termine di volontà comprende tutti questi significati in un modo più semplice, più immediato e più completo.
Cosa significa questa affermazione?
Semplicemente che un uomo senza volontà potrà forse anche costruire conoscenze, per esempio come quelle che si chiamano ‹metallurgia›, ma non quelle altre conoscenze sue tipiche che sono libere. In pratica l’uomo potrà insieme ad un suo simile esistere secondo una legge di necessità – e quindi considerarsi schiavo di un altro schiavo – che non possono cambiare i legami della loro comune esistenza, tuttavia egli potrà ancora costruire conoscenze libere, perché scelte ed elette secondo un ordine che li indirizza a tendere alla perfezione della loro natura umana.
Per comprendere meglio questo assunto, basta riportare un esempio che è quello che si ripete sempre per ciascun uomo nella sua diuturna esistenza.
A questo proposito ritorniamo a prendere in considerazione la natura di quel bambino che non abbiamo dimenticato. Abbiamo visto come egli sia un ‹dipendente di tutto› prima ancora di essere un ‹conoscente-razionale›. Egli fin dai primi istanti della sua vita sente freddo, fame e isolamento, e subito cerca senza saperlo il caldo, il latte e l’abbraccio della mamma e, così, avanti sempre nel proseguo del tempo vivendo nella dipendenza e nella necessità, anche se cambia modo e forma di espressione. Eppure egli conosce a poco a poco non tanto le cure obbligatorie, nemmeno la loro effettività intelligente e razionale, ma il loro significato, che è quello espresso dal sorriso di una madre che ama, e impara da questo amore a rispondere con il suo sorriso e a costruire il suo essere figlio, e non solamente realizzarsi come un automa meccanico senza nome e senza libertà. Tra madre e figlio non corre una relazione di dipendenza, ma di scelta comune e reciproca, che resisterà a tutte le difficoltà e a tutte quelle inimicizie che tenteranno di farla morire e appiattire in un rapporto di schiavitù e di necessità. Una volta diventato adulto, qualche volta si potrà dimenticare di questo rapporto ‹umano›, perché può usare malamente la sua libertà e trattare i suoi simili per renderli schiavi, come se fossero solamente frammenti di realtà naturali, o pezzi per la costruzione di conoscenze scientifiche ma, una volta diventato anziano, ritornerà ad essere ancor più dipendente di quando era bambino e riconoscerà, per esperienza affettiva e per ragione effettiva, come l’unica realtà valida della sua esistenza è quella che ha costruito nell’amore e nella libertà. A questo punto in una scelta, che ha tutte le caratteristiche di un miracolo, si disporrà ancora una volta e definitivamente a lasciare ai suoi simili, che sono ridiventati tutti amici, il possesso e l’uso non solo delle sue cose, ma della sua stessa vita in quella donazione al mondo e all’umanità che è la completa erogazione di sé con l’immolazione del suo corpo mortale su questa terra.
Può darsi che qualcuno sia sorpreso del modo in cui io ho trattato questi argomenti, ma io non riesco a descrivere la conoscenza, nel senso di acquaintance – che più propriamente tra uomini si chiama: amicizia, famiglia, comunità – in un modo diverso da come ho fatto.
Ci sono stati alcuni filosofi che hanno trattato questo argomento con altre visuali. Effettivamente il bambino non forma sempre con la madre e con la realtà che lo circonda quel quadro consonante, dove regna la comprensione e l’affetto, altre volte egli trova invece il contrasto e l’opposizione, come se fossero perfino posti da lui stesso per essere superati e potersi così affermare in modo autonomo ed emancipato. In questa occasione egli impara a distinguere il proprio ‹io› da quello degli altri, il proprio corpo dalla materia che lo circonda. Nella pratica comune, se il rapporto dell’uomo con le cose è necessario e obbligatorio, così anche il ‹non rapporto› può diventare altrettanto necessario e inevitabile; per questo con ordine non s’intenderebbe solamente una disposizione positiva, ma anche una specie di regolamento incaricato di controllare e proibire che opposizioni e contraddizioni arrivino a distruggere ogni convivenza. Ebbene, anche questo ‹no› è ‹in ordine-a-un-sì›, perché vuole escludere ciò che non è naturale, cioè il superare un impedimento per avanzare nell’esistere: in questo senso, perfino ogni forma di negazione segna un passaggio ad una ulteriore affermazione. Non si tratta di una cosiddetta ‹negazione di una negazione›, ma di evitare un meno, in vista di un meglio o, più precisamente, di ottenere una maggiore affermazione di un positivo in confronto di quello che sembra vietarlo od ostacolarlo.
La conoscenza della realtà metafisica
Dovendo descrivere oltre ai metodi come ragioni e gli effetti come conoscenze, abbiamo usato spesso il termine di ‹ente-conoscenza› e non uno diverso come per esempio poteva essere quello di ‹evento-conoscenza› oppure ‹scelta-cognitiva›, questo perché ogni conoscenza è anche un evento e una scelta, ma lo è, perché è un ente.
Ci chiediamo ora quale sia il significato di questi termini.
Abitualmente con il termine di evento si indica qualcosa che avviene nel tempo e nello spazio. Spazio e tempo, a loro volta, misurano e scelgono una parte di totalità come se la approvassero nella sua distinzione. In altre parole, c’è un qualcosa, che chiamiamo ente, ma che noi possiamo incontrare solamente in un dato momento e in un dato spazio, perché si mostra ai nostri occhi quando ‹avviene› davanti a noi in quanto è un evento. L’ente può anche meritare il nome di essere, mentre l’evento quello di esistere e, effettivamente, sono questi i termini più usati nel linguaggio filosofico.
Più difficile è assegnare un nome a tutto quel complesso di fatti che, solo per ricordarne qualcuno, sono nello stesso tempo: scelta, misura, stima, intenzionalità, in una parola ‹ordine›. Noi pensiamo che il termine più adatto sia quello di spirito. Infatti, lo ‹spirito› di una realtà permette la scelta, induce la dilezione, indica i rapporti in seno alla ‹conoscenza› inteso come ente che rimane se stesso, eppure continuamente dispiegato dalla ragione nelle evenienze, che sono particolari più precisi ed effettività più conseguenti. L’uso improprio di questi termini oppure confuso, o manchevole, o in altri casi debordante ha dato origine a tante filosofie, che sono altrettante teorie in disaccordo tra loro. Quello che avviene con la formulazione o con la costruzione dell’ente conoscenza da parte del soggetto conoscente insieme all’oggetto conosciuto, a maggior ragione avviene con la costruzione riflessa di quell’ente che è l’uomo, insieme soggetto ed oggetto, nei riguardi di se stesso e che abitualmente si chiama avvertenza, anche se questo termine esprime un significato ridotto a confronto con quello di conoscenza. L’uomo come soggetto conoscente ri-conosce, di aver costruito un se stesso che è una conoscenza di sé che, proprio perché deve essere perfezionata continuamente, rappresenta la realtà di quell’altro sé che è egli stesso oggetto di conoscenza. Questa continua ‹conoscenza-perfezionamento›, ovverosia questa ‹coscienza›, spiega come l’uomo sia sempre un ‹imperfetto-perfettibile›. In altre parole l’uomo sia implicitamente, sia esplicitamente conosce – che a questo proposito conoscere significa: essere per natura ‹inclinato-a…›, per lo spirito ‹tendente-a…› e per l'esistere ‹precisantesi-in…› –, l’uomo conosce una perfezione che egli non possiede, ma che cerca sempre di raggiungere. Questa perfezione mai raggiunta è anche e soprattutto distinta dall’uomo stesso – sebbene partecipata per formare la ‹acquaintance› – e corrisponde alla conoscenza di Dio o, meglio e con una dizione propria, alla grazia di Dio. Quando l’uomo nega Dio, nega anche se stesso e la realtà che conosce perché ferma il corso dell’‹evento-conoscenza›, decostruisce le proprietà dell’‹ente-conoscenza› e odia (non sceglie) l’ordine dello ‹spirito-sapienza›. Altri pensatori hanno messo in dubbio la personalità di Dio come se, pur possedendo tutto, mancasse tuttavia di questa proprietà; noi non possiamo negare la personalità concreta di un Ente, che tra l’altro, coincide con la sua perfezione. Dopo questa nostra esposizione dobbiamo ora dare un nome a questo tipo di riflessioni sulla conoscenza: essa consiste nella conoscenza del regno della metafisica.
Idee – Ideali
In questo senso c’è una differenza tra le idee della ragione e quelle idee che sono più propriamente ‹ideali›. Le idee di una cognizione sviluppata, non possono impedire la costruzione di una conoscenza (acquaintance) matura perché la formulazione delle idee presuppone un ordine analogico dello spirito dell’uomo, ma nello stesso tempo, la scelta degli ideali è favorita da una razionalità chiara e matura. Le idee manifestano o comunicano un’attività o una visione intellettuale con un significato logico, mentre gli ideali si manifestano come una valutazione analogica propria dello spirito dell’uomo. Le idee si lasciano ‹vedere› come luce nelle ombre di una caverna, mentre gli ideali si lasciano scegliere per la loro esemplarità, a qualsiasi età dello sviluppo razionale, perché dipendono da una razionalità intuitiva e analogica, surrogata da un’affettività pura; tuttavia l’esplicazione e la comunicazione del significato degli ideali necessita di una razionalità eidetica con uno sviluppo maturo. Un bambino, che prova e sente il comportamento affettivo della mamma, ‹vede› un esempio e lo sceglie subito per imitazione logica (iconica), ma soprattutto per elezione affettiva e lo ripeterà non appena possibile in ogni conoscenza come una ‹pratica›, anche se inavvertita, mai dimenticata, Tuttavia non potrà spiegare il suo comportamento, perché gli manca ancora una razionalità eidetica (delle idee).
In altre parole gli ideali si possono spiegare e descrivere razionalmente solo con una capacità cognitiva matura, mentre si possono scegliere intuitivamente come ‹esempi ideali› a qualsiasi stadio dello sviluppo razionale. Ripetendomi: un bambino con una coscienza incontaminata sceglie spontaneamente e subito l’‹Ideale› ma non sa descriverlo né comunicarlo se non come esempio ripetuto, pur nelle difficoltà di una natura che non si è ancora del tutto affermata e nei limiti della ragione che non si è ancora sviluppata. Una ragione matura e ‹onesta› vede gli ideali, ma senza un’affettività provata non realizza ‹conoscenze-ideali›, mentre una ragione iconica, che è innocente, tratta persino le bambole e gli orsacchiotti come se fossero, o con l’intento di farle diventare, conoscenze ideali.
La dimostrazione dell'esistenza di Dio
Fin ora noi abbiamo riflettuto e parlato di conoscenza, nel senso di costruzione da parte dell'uomo in unità con la natura in cui egli vive di enti conoscenza o di acquaintance. Noi abbiamo di proposito accantonato tutte le interpretazioni non surrogate da dati di fatto, ebbene, ora parlando di Dio, come ci comporteremo?
Io penso che val la pena di continuare sulla falsariga delle precedenti riflessioni. In altre parole, se dobbiamo rispondere al problema dell'esistenza di Dio è bene prendere in esame quale sia stato il tipo di acquaintance che gli uomini hanno costruito quando prendevano in considerazione una eventuale ‹conoscenza di Dio›. In pratica basta seguire la storia di questa conoscenza diversa, così come è avvenuta, e come è stata riportata negli scritti dei libri cosiddetti religiosi come per esempio la bibbia degli Ebrei e dei Cristiani.
A questo proposito io ho già scritto un piccolo libro intitolato: ‹Un filosofo legge la bibbia› e qui non voglio ripetermi perché mi pare di aver spiegato quale Dio avevano i personaggi biblici e quale uomo aveva Il Dio di questi personaggi e quale fosse la loro conoscenza reciproca – nel senso di partecipazione. Quel che invece mi preme considerare ora è come la conoscenza di Dio arricchisce la capacità cognitiva dell'uomo e la completa al punto che più avanti in queste stesse pagine dovremo riconsiderare lo sviluppo della conoscenza da un punto di vista più completo per rispondere a quello che manca e che serve invece per rendere perfetto o almeno perfettibile l'esistere dell'uomo. Questo arricchimento e questa completezza è già stata presa in considerazione accennando a come lo spirituale e il naturale a corredo del razionale siano necessari per qualsiasi conoscenza, ma a proposito della conoscenza di Dio deve essere ridiscusso e anche maggiormente apprezzato nella sua importanza.
La conoscenza di Dio, da un punto di vista filosofico e razionale è stata discussa sotto il titolo de ‹le prove dell'esistenza di Dio›; tuttavia, come noi non abbiamo addotto le prove dell'esistenza della verità o della conoscenza obiettiva, così non addurremo le prove dell'esistenza di Dio nel modo usuale, perché sarebbero strettamente razionali mentre per noi la conoscenza è un esistere di tutto l'uomo sebbene sotto l'aspetto razionale. In questo senso, dobbiamo prendere in considerazione oltre alle prove logico-analitiche, anche le prove naturali e quelle dell'ordine spirituale, non avulse dall'insieme, ma in unità con quelle fornite dalla ragione. Già i nostri maestri hanno considerato nel corso dei secoli anche queste prove, ma noi le abbiamo imparate divise le une dalle altre e non abbiamo evidenziato con sufficiente attenzione il loro concorso simultaneo alla costruzione della conoscenza come la formazione di un unico ente cognitivo che sia nello stesso tempo reale, ordinato e logico.
La necessità della conoscenza metafisica
Ogni uomo arriva a un certo punto del suo sviluppo che deve risolvere un problema di fondo, quando si domanda del perché della propria esistenza. È il caso del bambino con le sue insistenti richieste di spiegazioni, oppure del giovane che vuole impostare il suo futuro, altre volte infine, si tratta dell'anziano che vive di ricordi che sembrano voler nascondere una vita non sempre utile e, forse, mai del tutto soddisfacente.
In effetti, il problema principale di ogni uomo, quando si ritira in se stesso a pensare è questo ‹perché› che lo differenzia dagli altri viventi, trasformando il suo essere animale in quello di un ‹animale ragionevole›, ovverosia di un filosofo sempre alle prese con la conoscenza di un ‹aumento di conoscenza›.
Le risposte sono le più diverse, ma alle volte non sempre chiare. In effetti l'uomo cerca un Ideale che possa diventare esemplare per lui e facilmente paragonabile a quello dei suoi simili che condividono la sua stessa vita: quando non lo trova, allora lo inventa per liberarsi da un problema, quando non conosce il suo nome, allora ne accetta uno che sia quello più in voga per potersi spiegare con gli amici e gli interlocutori. Si tratta, In pratica del problema dell'esistenza di un Dio. Cerca così un dio che vada sempre bene in ogni occasione per rispecchiarsi, per giustificare le proprie fatiche e per approvare le proprie aspirazioni. In altre parole se l'uomo agisce ‹allo scopo di ...› si identifica con questo scopo perché se non lo avesse non sarebbe nemmeno quel suo sé che egli vuol vivere. L'‹esistere il perché› durerà sempre quanto dura lo stesso perché.
L'uomo si pone in questo modo davanti allo specchio e non si vede nella propria immagine se non può renderla obiettiva, infatti, ancora una volta, sente l'urgente bisogno di partecipare agli altri e di essere partecipe degli altri e delle altre realtà per continuare a esistere, altrimenti deve accettare il suo nulla, come quello di una immagine che non parla, non si commuove ed è avulsa da ogni realtà.
Si tratta del proprio rapporto personale con la ‹Totaltà che lo circonda›, che è un continuare la vita di un ‹Esistere che non muore›, nel sentirsi ‹parte consenziente di una Unità› che lo approva. In una parola, ancora una volta, si domanda se esiste Dio.
Ebbene se esprime una interrogazione chiede una risposta, si aspetta una spiegazione e si ritrova così nel mare senza limiti della sua razionalità cognitiva.
Se esiste l'Esistere, se è ragionevole chiederselo, in che modo è possibile conoscerlo o, in altre parole, la domanda non è razionale se non ha una risposta convincente, perché in questo caso, anche l'uomo diventa un essere irrazionale che non può spiegare e non può spiegarsi.
È così venuto il momento di ripensare la ‹conoscenza› in vista di una risposta a una domanda del genere come, per l'appunto, è quella della ‹dimostrazione dell'esistenza di Dio›.
La conoscenza razionale di Dio
La conoscenza razionale di Dio da parte dell'uomo inizia con la partecipazione a quella vicendevole che Dio ha nei riguardi dell'uomo. In altre parole, come scrive la Bibbia, inizia con una raffigurazione o come un racconto che descrive con pochi cenni come Dio creò l'uomo a sua immagine e somiglianza. La dimostrazione dell'esistenza di Dio passa attraverso la domanda e l'esame di questa immagine e di queste parole che per l'appunto descrivono una storia o un evento che riguarda l'inizio e la nascita di ogni uomo. Dopo questo preambolo che è una ‹icona› – ovverosia una immagine logica o una raffigurazione di una conoscenza iniziale, almeno come presupposto – prendiamo in considerazione il decorso della conoscenza dell'uomo e della conoscenza di Dio che si incontrano per costruire la conoscenza che chiameremo ‹religione›. In questo senso se esiste un uomo nell'atto di conoscere Dio, affinché si possa costruire questa conoscenza è necessaria la contemporanea attività cognitiva da parte di quel Dio sconosciuto così come esiste per il fabbroferraio la pirite per la conoscenza del ferro. Con questa similitudine, non è detto che il fabbroferraio conosce la pirite come se l'avesse ‹inventata› lui. D'altra parte dobbiamo anche riconoscere che se esiste un manufatto di ferro è perché esiste anche un operaio che è competente nel costruirlo e un metallo che si trova in natura che è la pirite.
A questo punto noi ci chiediamo che differenza c'è tra quel conoscibile che è la pirite e quell'altro conoscibile che è Dio. In altre parole, se il fabbroferraio ha trovato la pirite in natura e non l'ha costruita con l'immaginazione, è anche vero che l'uomo deve aver trovato un Dio per così dire in natura, anche se non lo ha visto con gli occhi, se vuol riuscire a costruire una sua conoscenza con lui. Egli non può ammettere in partenza di esserselo immaginato come se fosse una realtà, al posto di confessare una sua infatuazione senza alcun fondamento. I nostri dubbi, a questo punto, prendono una consistenza maggiore e ancora ci chiediamo: "Quando mai un uomo ha visto Dio?".
"Quando mai un uomo ha visto Dio?"
La risposta è più semplice e più convincente della stessa domanda. Infatti noi ci chiediamo nella pratica quotidiana: "Quando mai l'uomo si è comportato come se non avesse visto Dio?". Anzi, se vogliamo essere più precisi, dobbiamo rifare la domanda: "Quando mai l'uomo non ha visto Dio negli idoli, nei suoi simili con qualità eccezionali, nei suoi antenati e... così via?". Anche il fabbroferraio ha visto la pirite per secoli e forse per millenni senza conoscerla come materiale precursore del ferro, per cui la vedeva e non sapeva nemmeno cosa fosse, così anche l'uomo ha visto immagini e realtà di enti che solamente in tempi più vicini ai nostri si sono rivelate come entità visibili di un Dio ben diverso da quello che l'uomo vedeva senza conoscere.
In questo senso la storia della conoscenza di Dio, ovverosia la descrizione razionale della visione di Dio non si può comprendere senza competenza, allo stesso modo che la descrizione dell'esistenza della pirite-ferro non è compresa se non da chi possiede una competenza in materia, frutto di ricerche e di esperienze che sono durate millenni prima di arrivare all'età del ferro. Ebbene, tutti noi usiamo quotidianamente una quantità innumerevole di manufatti di ferro senza essere dei competenti in materia e, sia che lo avvertiamo, sia che non ne siamo coscienti, usiamo una quantità innumerevole di conoscenze di Dio come se fossimo dei competenti, mentre invece siamo solamente dei comuni profittatori della conoscenza altrui. Quando noi usiamo un manufatto di ferro ‹ esigiamo anche che corrisponda alle nostre necessità, e diamo in escandescenze, e pretendiamo una riparazione se dovesse presentare delle imperfezioni ›, ebbene, allo stesso modo quando noi usiamo un idolo, ovverosia l'immagine di un Dio che vediamo incarnata in una persona con doti eccezionali, alla quale abbiamo manifestato tutta la nostra riconoscenza e dalla quale pretendiamo una risposta adeguata ‹ esigiamo anche che corrisponda alle nostre necessità, e diamo in escandescenze, e pretendiamo una riparazione se dovesse presentare delle imperfezioni ›. Effettivamente, qualsiasi incompetente prima di emettere giudizi su ciò che non conosce, cerca di informarsi per non incorrere in tanti errori. In questo senso il mio libro sulla storia della conoscenza di Dio descritta dalla bibbia è un tentativo che vuole informare sulla realtà di una conoscenza che si è perfezionata fino ai giorni nostri.
Io qui, invece, vorrei toccare un punto principale riguardo questa conoscenza come la vede oggi una persona qualunque, non per mostrare i suoi errori e le sue incompetenze, nel caso vi fosse incorso, ma per cercare una risposta che le possa superare.
Domande frequenti sulla conoscenza di Dio
Si tratta di esaminare le domande più frequenti su questo argomento:
1) Quali sono le immagini degli idoli attuali che richiedono di essere aggiornate per acquistare il significato di precursori di una conoscenza moderna di Dio?
2) In che cosa consiste questo aggiornamento?
1) Gli idoli moderni più comuni in sostituzione di Dio
Noi viviamo in un mondo di dei e di idoli diversi; il più delle volte siamo così abituati a riconoscerli ossequiarli e venerarli che non ci accorgiamo nemmeno di quanto siano per noi necessari.
Un simpaticissimo bambino, mio amico, alla domanda chi è Dio, rispondeva senza esitazione: "Papà Tino!" – il ‹dio Tino› era il suo papà: un rinomato architetto che aveva costruito l'intero quartiere dove egli abitava. Di per sé ogni uomo ha scelto dio fin dal principio della sua vita, ma alle volte è un dio diverso da quello che hanno scelto gli altri e una volta scelto, piuttosto di confrontarsi con i suoi interlocutori ha preferito azzuffarsi con loro, con il risultato di farseli nemici, come se fosse più importante vincere sotto le insegne e nelle schiere del proprio dio, al posto di usare le armi della ragione per convincersi quale fosse quello vero. Si tratta di un assurdo pratico. Ripetendomi: con o senza armi, ogni uomo sceglie un dio di fatto e per lo meno, come afferma Hume, se ne fa un'abitudine che crede corrispondere alla verità, mentre invece è solamente una convenienza opportuna. La vera ragione che spiega questa non ragione sta nel fatto che gli uomini non sono d'accordo su che cosa sia un vero dio al punto che alcuni lo riconoscono in pratica nel proprio io personale per sostenere che tutto il mondo esterno che sfugge alla propria autorità è dominato da un ateismo pratico irragionevole e fortuito. Locke che oltre ad essere filosofo, era un collega medico alle prese con gli ammalati e le malattie, sosteneva che ci dobbiamo sbarazzare delle immagini ridicole di un dio assurdo. Una mia cliente a chi la informava che un primate inglese, di cui non ricordo il nome, aveva chiesto udienza al papa di Roma, rispondeva con una rabbia fin troppo evidente, sostenendo che solamente la regina d'Inghilterra poteva trattare di questioni religiose inglesi con un regnante di un'altra nazione. In questo modo paragonava tra loro tre dei: il primate, il papa e la regina per mettere sul primo piedestallo la regina e tributarle tutti gli onori divini di cui gli altri due personaggi non sarebbero stati del tutto degni.
Gli dei comuni sono numerosissimi
Alcuni venerano un buon giocatore di calcio o una diva del cinema, altri uno scienziato o, in mancanza di un unico rappresentante della scienza, venerano un intero olimpo di scienziati. La gente comune preferisce al posto di un dio semisconosciuto, quello più familiare, nelle vesti del poliziotto che tiene a bada i bravi cittadini del proprio quartiere o anche solamente il commissario di turno del proprio partito politico. Insomma nessuno si azzarda a mettere in dubbio l'autorità infallibile della persona che hanno scelto come quell'idolo che, se non è universale, per lo meno non ammette rivali. Per questo, nella pratica di tutti i giorni non lo mettono mai in discussione e non lo disobbediscono mai apertamente per non comparire colpevoli nei suoi riguardi, pronti ad ossequiarlo con tutte quelle manifestazioni di rispetto che li possa salvare da una larvata ipocrisia. Infine c'è chi dice di non aver nessun dio e, anche se in pratica la cosa è discutibile, in effetti da tanto tempo ha scelto se stesso come l'unico dio e ha solamente paura di non poterlo affermare apertamente col mettersi su un piedistallo per pretendere riconoscenze e onori che risulterebbero invece una ridicola farsa. Ricordo sempre la sorpresa negativa e deludente provata al vedere sui muri di Milano la propaganda verso la fine dell'ultima guerra mondiale che proclamava: «Il Duce ha sempre ragione» e la mia meraviglia disgustata quando venni a sapere che Hitler pretendeva un impegno d'onore da parte dei Tedeschi per difendere la sua persona ai primi sentori della disfatta nazionale. Mussolini e Hitler avevano una autorità ma non assoluta, semplicemente perché non erano Dio, erano tuttavia convinti di averla, mentre in effetti possedevano il potere di un idolo che pretendeva onori e riconoscimenti divini. La storia ha già cancellato le immagini di questi presunti dei, senza lasciarci in dubbio e non mancherà di detronizzarne altri che oggi siedono sull'altare del potere, anche se sono più prudenti nel pretendere onori divini, pur di non rinunciare al loro potere indiscusso, sebbene occulto.
In pratica, la scelta di un idolo poggia sull'errore che confonde l'autorità con il potere, infatti, il potere di Dio dipende dalla sua autorità, mentre alle volte il potere degli idoli non è nemmeno esemplare e, a maggior ragione non è autorevole,
Per orizzontarsi in questo assurdo, senza perdersi in tante questioni secondarie è meglio descrivere l'autorità di una persona che si è auto proclamata Dio, dimostrandolo con i fatti prima di spiegarlo con le ragioni e che è stato riconosciuto come tale da molti di noi: si tratta del Nazareno. Gesù ormai al culmine della notorietà, tradito da un suo discepolo, trascinato in tribunale è imputato di essersi proclamato re e quindi di aver sostituito le autorità vigenti in quel tempo, al punto che deve morire «perché si è dichiarato Dio».
In risposta a questa accusa che riferisce una verità, ma che non è equivalente a una colpa, Gesù ha illustrato le sue teorie, come ho già detto, prima di tutto perché le ha vissute, ovverosia presentandole come dati di fatto, per spiegarle poi con dati di ragione. Tra questi dati di fatto bisogna citarne almeno uno, come esemplare: Gesù, maestro che lava i piedi dei suoi discepoli prima di celebrare l'ultimo ‹convivio-scuola› della sua vita terrena,è un attestato che non si può definire secondario, proprio perché consiste in un fatto che è una spiegazione pratica di cosa egli intendeva per autorità. Il corrispondente dato di ragione che la spiega consiste nel cosiddetto ‹comandamento nuovo› che Gesù promulga poco prima di salire il Calvario: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34). Si tratta di un comandamento che è autoritario e, nello stesso tempo, autorevole. È autoritario nelle intenzioni di chi lo ha promulgato perché non lascia dubbi né fraintendimenti e ancora perché è riconosciuto dai suoi discepoli senza discussioni e senza richieste di chiarimenti che sono già contenute in quel «come io vi ho amato». Soprattutto poi è autorevole perché coincide con il dato di fatto di un legislatore e un maestro che, per aver lavato i piedi agli apostoli, si è così dichiarato loro servo. Un esempio di autorità che è un servizio – proprio perché serve, cioè è utile e necessaria – è un dato di fatto che riguarda l'‹ordine› prima d'essere un fatto di ragione, perché rivela una autorità che si fonda sulle virtù dello spirito, quasi prima ancora di essere potestà naturale e ragione esistenziale. Una autorità così fatta è assoluta e universale perché corrisponde a quel dato di fatto che equivale alla generazione di quell'ente conoscenza, nato dall'unità tra i discepoli e il loro maestro. Nel contesto di questo evento, tra autorità e autorevolezza non c'è conseguenza, ma coincidenza, perché corrisponde all'ordine delle virtù che testimonia l'autorità di chi comanda e la coscienza di chi obbedisce. Per questo motivo e in questo ‹ordine› autorità e coscienza sono distinzioni e nello stesso tempo unità dell'ordine stesso. In altre parole, la virtù dell'amore che unisce chi comanda e chi obbedisce giustifica lo spirito di qualsiasi legge, quasi senza ulteriori spiegazioni ragionevoli, perché riposa su un assolutismo e una democrazia che sono contemporanei, tra loro conseguenti e, sempre tra loro consenzienti. L'autorità di Gesù è quindi anche democratica, eppure non manca d'essere assoluta, nel senso che è giusta e non solamente giustificata, tanto è vero che si rivela anche come conoscenza (acquaintance) che si realizza in quell'ente nuovo del tutto reale e concreto che è la chiesa dei cristiani e che non è solamente logico né puramente intellettuale perché si identifica con la realtà pratica e concreta della loro stessa religione. Solo così si può capire come Gesù dopo aver promulgato il suo ordine possa concludere: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt. 18,20)» – non per una concomitanza estemporanea o occasionale – ma con una presenza ontologica e unitaria, che è completata e messa in chiaro dalla sua promessa: «In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualche cosa al Padre [al nostro Padre: mio e vostro] nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena (Gv.16, 23-24)»; come se dicesse: "Se voi vivete in unità con me la mia stessa mediazione che io ho nei riguardi del Padre, voi non avrete nemmeno più bisogno di chiedermi una intercessione esplicita, ovvero, se voi vivete in unità con me la mia mediazione nei riguardi del Padre è inclusa nella nostra unità".
In questo modo, abbiamo cercato di descrivere una delle diverse spiegazioni pratiche del Dio dei cristiani, che non si è dimostrata irragionevole, non mancando nemmeno di appoggiarsi sulle peculiarità dello Spirito e sulle caratteristiche delle proprietà che convengono a un ‹Sommo Bene›, meno idolo, e più Verità.
L'ombra dimostra la luce
Gli idoli sono una dimostrazione dell'esistenza di Dio come l'ombra dimostra la luce specialmente se si tiene presente una differenza enorme tra i due paragoni. Infatti, l'ombra è una mancanza di luce, mentre un idolo non è una mancanza di Dio, ma è una imitazione seppure mal riuscita. Noi conosciamo la luce perché la vediamo anzi perché ci permette di vedere, così conosciamo Dio perché ci permette di conoscere il bene di quella consistenza che lascia intravedere una sua perfezione somma, mentre un idolo è una immagine del bene o un richiamo all'esistenza del bene che in qualche modo partecipa con il ‹Sommo bene›, purtroppo deformandolo, ma non negandolo. Chi si appella agli idoli moderni della scienza o della politica si aspetta di trovare un idolo che per lo meno vale la pena di riconoscere come se fosse il migliore di cui l'uomo possa disporre al giorno d'oggi, ma mentre l'ombra richiede la ricerca della luce, l'idolo moderno impedisce la ricerca del vero Dio come se lo volesse sostituire. Di per sé anche l'ombra non è una mancanza totale di luce, così come gli idoli della scienza o della politica lasciano vedere un poco di realtà partecipe di quell'unico bene che non ha confronti.
Nella storia della conoscenza di Dio esiste anche una conoscenza della sua esistenza come unico e Sommo Bene, come se egli avesse rifiutato di partecipare il suo essere all'uomo che perde così la sua amicizia in eterno. È la conoscenza di Dio fatta da Giobbe e da tutti i Giobbe della terra che si sentono abbandonati, non solo dal Sommo Bene, ma anche da ogni bene, anche dei più piccoli e dei più necessari.
Giobbe non dubita che questa condanna sia invece una prova e la sua fiducia gli merita una stima e una amicizia straordinaria da parte di Dio che si sente, per così dire, obbligato a riconoscergliela.
L'argomento, appena accennato, richiederebbe un completamento necessario, forse anche da parte nostra, senza escludere il contributo di chi meriterebbe una maggiore attenzione di quella fin ora prestata a me stesso.
A questo punto, tuttavia, il racconto di un fatterello semplice e interessante può semplificare gli eventuali problemi che il nostro discorso non ha del tutto risolto.
Cosa dire a un cinese
Tempo fa, ho fatto un giro nella Svizzera per cercare un editore che volesse pubblicare i miei scritti e per visitare un amico che non vedevo da tanto tempo, ho trovato invece un cinese che non conoscevo nemmeno.
Cosa dire a un cinese?
Come cercare di farmi capire?
Come trovate in pratica una lingua, o meglio, un'intesa, per non rimanere come estranei, a rischio di diventare tra poco nemici l'un dell'altro?
Avevo ancora a mia disposizione qualche rimasuglio della civiltà occidentale da donare a questo cinese, prima di essere sommerso dalla potenza e dall'invasione di una ‹forse non cultura non occidentale›?
Così, cominciando da quel poco di filosofia che io vivo, ho scoperto, nel medesimo tempo, che essa era il lieto annunzio di un Dio che si rivelava anche ai cinesi e, come a loro, anche, e soprattutto, a quelli che oggi non hanno Dio, a mo' di quei cinesi che non conoscessero Dio. Mi sono trovato così nella condizione di raccontare il vangelo.
Cos'è il Vangelo?
All’inizio era l'annuncio di un nuova fede a quelli che credevano di avere una religione vera: ai giudei che invece ne avevano una sbagliata.
E, cos'è oggi il vangelo?
È la stessa cosa: è l'annuncio di un nuovo credo a quelli che pensano di professare una religione vera che, invece, è diventata per tutti incomprensibile e inutile, come se fodde sbagliata.
Ma, allora, qual è la religione a cui credere?
Tutti gli uomini, anche gli atei hanno un dio o almeno un idolo, perché credono di fatto al loro dio, ovverosia si comportano nei riguardi di Qualcuno come se fosse dio, perché credono a lui ciecamente e gli obbediscono, in pratica e in teoria; tanto è vero che chi gli disobbedisce o mette in dubbio la sua onnipotenza, si accorge subito della frusta e, se non si adegua con prontezza alla sua volontà, viene ben presto eliminato civilmente o anche fisicamente per trovare, con tutti gli onori, il suo posto in un cimitero, sotto terra. Nel maggiore dei casi, questo dio è un uomo qualsiasi, che è diventato il rappresentante di una potenza economica, oppure di una potenza politica, oppure ancora con un auge personale (carisma). L’opinione comune si è ormai abituata alla potenza di questi dei che sono diventati gli idoli del popolo e chiunque li venera apertamente, per trovare poi, in segreto, il modo di non obbedire a nessuno di loro. Si tratta di quella religione che domina, costringe, comanda e non ammette disobbedienze, perché controlla ogni pensiero e ogni sentimento dei suoi pseudo-fedeli e dei suoi finti credenti, che siamo noi nel nostro mondo.
Ma allora qual è la nuova religione?
È quella di un vangelo antico eppure capito di bel nuovo, dove si legge che gli uomini sono tutti fratelli perché sono figli di un unico Padre.
Ma come credere a un annuncio del genere?
A questo punto mentre parlavo con il mio cinese, venne quel mio amico che avevo cercato e i saluti, gli affetti e la gioia dell'incontro subissarono tutte le ragioni del mio discorso. Mi ritrovai subito nell'atmosfera dell'amicizia, mai persa, sempre ricordata, da lungo aspettata di essere nuovamente vissuta, perché tra amici veri si è molto di più e molto meglio che non tra fratelli che possono trovarsi, alle volte, perfino in discordia.
Il mio cinesino ci guardava, oserei dire con invidia, ma egli aspettava di sapere da me come si diventa amici e fratelli tutti figli di un unico Padre. Io allora gli dissi che non bisogna aver fede in un dio che promette un mondo di favola, né a uno che prospetta una vita fatta di piaceri, né ancor meno a chi promette di assicurare un successo che sarà solamente artificiale.
Invece il mio Dio non è una favola, ma è la vita, non il piacere, ma l'utile, nemmeno l'utile e il successo, ma l'ideale, perché il mio Dio non è falso ed esige l'impegno di chi vuole migliorare, la fatica di chi vuole produrre il bene, la dedizione di chi vuole amare. È un Dio concreto che paga di persona, che lava i piedi ai suoi discepoli per insegnare a volerci bene, come lui stesso ha amato i suoi nemici che lo hanno messo in croce.
Non ci si può illudere, il Paradiso si abita in cielo, ma si costruisce in terra, il vero Padre si trova tra i suoi figli, ma quando si sono dimostrati fratelli tra loro.
Io non ho altro Dio all'infuori di lui che è il nostro Padre tra noi e di tutti i popoli delle più diverse lingue, perché è vicino a ciascuno dei suoi figli che non si sono allontanati da lui, che egli chiama sempre a partecipare alla vita e alla gioia del suo regno.
Quel non più cinese, ma ormai fratello, non finiva di ringraziarmi, mentre io avrei dovuto ringraziare lui che mostrava con la sua gratitudine effettiva nei miei riguardi, tutto quello che io gli avevo prospettato con il mio dire che non poteva rimanere solamente teorico.
2) Come aggiornare gli idoli per conoscere Dio
Dopo di aver considerato l'autorità di Gesù e il ‹non-potere› degli idoli, abbiamo tuttavia ammesso l'abitudine, ormai acquisita di ritenere necessari quasi esclusivamente gli idoli. Del resto abbiamo considerato l'autorità di Gesù come se fosse unicamente quella di un uomo, sebbene si rivelasse a noi nello stesso tempo come quella propria di Dio.
Egli che aveva detto «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt. 22, 21), si fece obbediente alle autorità del tempo che lo hanno condannato, senza accennare alla loro mancanza di competenza nei suoi riguardi, ma nemmeno senza evitare di fornire loro le prove della sua rettitudine. In altre parole il Nazareno non ha voluto diminuire né l'autorità di chi lo stava giudicando né la sua dignità, aumentando in questo modo la responsabilità del giudice, ma sostenendo a maggior ragione la verità del suo ‹vangelo› sia teorica, sia pratica.
Davanti al tribunale delle autorità Ebraiche cita in sua difesa le dichiarazioni rilasciate sempre pubblicamente e mai per costruire un potere occulto. Anche oggi esistono probabilmente tribunali simili a quello dove veniva giudicato Gesù, che assolvono i poteri occulti per mancanza di testimoni e magari condannano i giusti tacitando le testimonianze contrarie alla sentenza.
Davanti poi alle autorità Romane, Gesù responsabilizza il pretore Pilato che tentennava, proprio perché non ascoltava la verità: né quella così detta verità che gli avevano riferito e che egli stesso aveva messa in dubbio, né quella che invece non voleva sentire dal Maestro di Nazaret che gli proponeva con la sua presenza . Il condannato Gesù non ha svilito le diverse autorità, al contrario, le voleva salvare. Già in questo ambito si deve ammettere che l'autorevolezza che Gesù ha mostrato di avere è per lo meno straordinaria, ma egli ha istituita anche una autorità del tutto nuova perché ha rivelato quella di Dio stesso che non ha paragoni, non tanto e non solo perché è onnipotente e giustissima, ma perché è giustificante.
Gesù non ha diminuito l'onnipotenza della giustizia divina, ma la giustizia che egli ha portato sulla terra consiste nel togliere i ‹peccati›, prima ancora di condannare il ‹peccatore›. In questo modo Gesù ha ribaltato il concetto di giustizia come veniva praticata non solo ai suoi tempi e nemmeno diversamente oggi, facendo precedere i fatti alle spiegazioni.
Anche a questo proposito sono più convincenti i dati di fatto del suo agire, prima ancora delle spiegazioni razionali che tuttavia non mancò di spiegare.
A un cero punto della sua attività pubblica i dotti e le autorità del suo tempo gli pongono una obiezione di fondo che contrasta con il suo programma di riabilitazione e di rinnovamento: "Abbiamo colto in fragrante una adultera che merita una condanna: assolvendola, approveremmo l'ingiustizia, condannandola l'immoralità. Come dobbiamo comportarci?"
Gesù sa benissimo che tutti gli uomini, prima ancora di essere adulteri, sono di fatto ladri e assassini, quando invadono l'altrui spazio vitale per difendere il proprio, al punto che tutti dovrebbero essere giustiziati, tanto è vero che uccidono per vincere e si suicidano per non perdere; in questo senso sa benissimo che egli stesso sarà ucciso, ma sa anche che non ha bisogno di polizia e di soldati per salvare il suo potere, semplicemente perché il suo regno non è di questo mondo.
Così si china sulla terra e scrive con il dito sulla sabbia le prove della sua filosofia. Le persone dotte e le autoritarie che hanno accusato sia l'adultera, sia la società adultera, si chinano sulle scritte del Signore e, uno dopo l'altro cominciando dagli anziani, leggono i loro peccati, ma non chiedono perdono, vogliono evitare una condanna, temono di essere svergognati e lasciano sottecchi la scena senza nemmeno salutare.
Immaginiamoci la gioia di quella donna che si vede risparmiata da un uomo che la ama non certamente con un amore erotico, non per convenienza, non per simpatia, non per diffondere le proprie direttive o essere approvato nelle proprie teorie, ma per amor puro, che sa comprendere, può rivalutare e stimare anche il meno stimabile: in una parola che non spegne il lucignolo fumigante. Immaginiamoci la gioia degli amici di Gesù che si accorgono di non dover cercare scuse ai propri errori, senza la necessità di nasconderli per non essere svergognati, e senza la paura di difendersi per non essere condannati, perché possono sperare di ottenere una rivalutazione nuova che li fa fratelli di qualsiasi persona ex-adultera rinata in una società finalmente risorta. Immaginiamoci la gioia di ritrovarci fratelli in quel mondo nuovo che è il paradiso dei risorti, dove è cancellato il male fatto e qualsiasi possibilità di rifarlo. È questa la conoscenza totale, senza occultamenti, senza imbrogli artificiali e senza condoni artificiosi che mancava e che ci manca sulla terra, ma che ci aspettiamo dopo la morte fisica e la risurrezione di un corpo che sarà simile per purezza a quello degli angeli del Cielo.
È questa forse una utopia?
Ebbene, Gesù stesso deve morire. Sulla croce, è un uomo che nuore come tutti i mortali, si sente abbandonato da Dio come se egli non fosse Dio e, invece, risponde a questa cosi detta mancanza di amore da parte del Padre con un Amore che ristabilisce l'unità in seno alla Trinità. In questo modo, non solo egli dona il suo amore al Padre senza richiederlo a lui, ma sopperendo a quello del Padre stesso come se non ne avesse più a sufficienza per il Figlio. Usando un modo di parlare esagerato, ma non inconsistente: in un certo senso, il Figlio ha redento anche il Padre, o meglio ha salvato l'amore che egli, come Figlio, aveva per lui in rappresentanza di tutti gli uomini che invece fino allora lo avevano sempre richiesto da Dio, ma mai glielo avevano reso, se non per ottenerne egoisticamente un compenso.
In questo senso si può quasi affermare che l'amore di Gesù è più grande e più infinito dell'amore del Padre, dimostrando così di possedere un ‹amore divino›, cioè di essere egli stesso Dio, perfino se fosse mancato un Dio nel Padre dal quale si sentiva abbandonato.
È necessaria la morte non dell'uomo, di per sé non è nemmeno necessaria la morte del suo fisico, ma è necessaria la morte di quel fisico che è la causa di ogni egoismo, ovverosia di ogni furto e di ogni pretensione, altrimenti non si può entrare in un regno come quello che Gesù ha ri-creato di nuovo: è necessaria la nostra risurrezione e la risurrezione di un mondo nuovo. Gesù non aveva bisogno di morire, ma voleva battere la strada che avrebbero potuto poi percorrere i mortali. Se egli sulla croce aveva ripristinato l'unità che sembrava mancare non aveva nemmeno tralasciato di salvare i fratelli ancor più amati e più scelti per essere uniti a lui, pur rimanendo tra lui e loro distinti.
È questa la nuova conoscenza che mancava agli uomini del suo tempo e che può benissimo mancare sempre agli ‹animali razionali› di questa terra. Si tratta di un’unità nuova tra conosciuto e conoscente che crea un ente nuovo che è lo stesso corpo mistico del Signore.
La conoscenza di Dio è anche razionale, ma più completamente è per ogni uomo nella sua interezza: ragione, natura e spirito, vissuti in unità. In questo senso si possono comprendere meglio non solo le ragioni, non solo le proprietà naturali, ma anche le virtù dell'uomo. Le abbiamo più volte considerate per cenni è necessario approfondirle, per quanto possibile, più avanti; ci aiuteranno a comprendere questa nuova conoscenza che per ogni uomo è appena iniziata sulla terra e che merita di essere chiamata con il termine nuovo di ‹conoscenza mistica› per distinguerla dalle altre degli stadi precedenti dello sviluppo razionale dell'uomo
I limiti della conoscenza
Dalla conoscenza ai suoi limiti
Le riflessioni sullo sviluppo della cognizione e sulla costruzione delle conoscenze ci permettono di comprendere meglio come sia possibile che l’una e le altre siano sempre perfezionabili e quindi di spiegarci il perché della differenza di tanti pareri per trovare il modo di ridurre al minimo gli errori.
Perché tanti pareri diversi
Ci sono pareri diversi che dipendono da 1) conoscenze surrogate da competenze diverse o, ancor prima, dipendenti da un differente grado di sviluppo razionale, 2) altre ancora condizionate da un differente tono e padronanza dell’affettività, infine 3) per deficit o superiorità naturali della persona conoscente. Queste differenze arricchiscono di significati l’uomo, purché vengano ricondotte non all’appiattimento dell’eguaglianza, ma all’ordine dell’unità; esse concorrono alla formulazione del ‹giudizio›.
Il giudizio è una capacità dell’uomo di enunciare affermazioni che corrispondono alle sue conoscenze (acquaintance). I giudizi principali sono: quello di verità, giustizia, libertà. L’esame di questi argomenti lo rimandiamo dopo aver accennato ai contributi della volontà nei riguardi della ragione, tuttavia fin d’ora è utile sapere, grosso modo, quali sono questi differenti pareri qui citati, tenendo tuttavia presente che noi non abbiamo bisogno di una scienza filosofica per diventare dottori, ma di una pratica che ci dia indicazioni certe su come comportarci, per non disdire le aspettative di chi ci è vicino e le segrete speranze del nostro cuore. Proprio per questo, non ci sentiamo nemmeno di rinnegare tanti secoli di studio fino ai nostri giorni, d'altra parte, se parliamo di pareri diversi, dobbiamo ammettere che essi siano stati sostenuti in proprio e singolarmente da altrettante differenti personalità in veste di maestre. Per questo, molti autori affermano che la filosofia moderna ha una propria caratteristica: il soggettivismo. Citiamo tre esempi famosi: il soggettivismo etico di Macchiavelli, quello logico di Kant e quello, per così dire, metafisico di Hume nei riguardi del problema dell’esistenza di Dio e della possibilità di una vita eterna per l’uomo.
Il soggettivismo etico
A questo proposito sono indicative due citazioni dal libro del ‹principe› di Macchiavelli.
…Colui che lascia quello che si fa per quello che si doverebbe fare impara più tosto la ruina che la perseverazione sua; perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo la necessità. (Principe. Cap. 15).
…Non può pertanto un signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanza gli torni contro e che sono spente le cagioni che la fecero promettere. E se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi e non Io osservarebbano a te, tu etiam non I’hai ad osservare a loro. (Principe. Cap. 18).
Per Macchiavelli il «quello che si doverebbe fare» e osservare non è tanto il bene, ma l’utile. Siamo nel campo di una politica dove le ragioni della morale consisterebbero nella sua utilità.
Nascono subito da questa visione della realtà due questioni. La prima è che quel che è lecito a chi comanda non si capisce perché debba essere proibito a chi deve obbedire. La seconda questione riguarda il deferimento al tribunale dei diritti umani: se il principe è svincolato dalla morale per ragioni di utilità, non si capisce perché debba essere poi condannato da un tribunale, solo perché ha perso il potere ed è stato destituito. Ma proprio questioni del genere rivelano quanto sia soggettiva la morale moderna. L’imputato non sarebbe responsabile davanti alla autorità morale, ma solamente alla legge promulgata e solo nel caso che non sappia difendersi a sufficienza che, nell’ambito politico, significa quando ha perso o la guerra o il potere.
Si tratta in ogni caso di puro soggettivismo etico.
Qui non si deve tirare in campo la questione della coscienza personale, perché vengono approvati e perseguiti i comportamenti in quanto utili, tralasciando del tutto di prendere in esame un giudizio di coscienza. In pratica il giudizio di coscienza implica il concetto di ordine, mentre il giudizio di utilità necessita di una approvazione caso per caso, senza una legge universale.
La convenienza di simili asserzioni può essere giudicata da ciascuno, ricordando i campi di concentramento per l’eliminazione dei dissidenti o degli avversari politici: se il soggettivismo morale produce simili frutti dovrebbe almeno essere messa in dubbio la sua validità.
Soggettivismo logico
Kant sostiene che noi non possiamo conoscere le cose in sé. Questa asserzione si fonda sul fatto che noi non possiamo mai conoscere del tutto la realtà e, quindi, quel che conosciamo sarebbe condizionato dai nostri limiti, tuttavia con le affermazioni di Kant si passa da un riconoscimento di una insufficienza alla presunzione di una incapacità di fondo. Un’affermazione del genere giustificherebbe la conclusione che, poiché nessuno ha una conoscenza completa della cosa in sé, non ne avrebbe nemmeno una corrispondente alla realtà e, quindi, ciascuno la conoscerebbe solo a modo suo o, in altre parole, in modo soggettivo.
Kant convenientemente non considera l’intelletto solamente come una macchina per conoscere, ma gli ascrive inoltre anche la capacità e la possibilità di costruire conoscenze, tuttavia come se l'intelletto potesse determinare l'ordine delle conoscenze stesse. A questo proposito bisogna invece ammettere che noi conosciamo conoscendo, così come viviamo nel vivere la vita e non per il fatto che condizioniamo il conoscere e il vivere. La conoscenza è un’esistenza in unità con il conosciuto che dipende dalla natura dell'uno e dell'altro e non dalla sola interpretazione soggettiva della persona che conosce.
Il soggettivismo fa dipendere la realtà dal proprio modo di vederla e di conoscerla: se fosse valido tutte le conoscenze scientifiche sarebbero supposizioni, ma se si negasse, dovremmo ammettere che l’uomo può conoscere la verità, pur senza escludere che tutto questo potrebbe risultare una responsabilità troppo grave per chi, incarcerato nel suo soggettivismo, teme di non riuscire a portarla da solo e senza alcun aiuto sulle sue spalle.
Con un soggettivismo del genere l’intelletto è necessariamente incapace di riflettere su una ‹Totalità› ponendo così degli ostacoli insormontabili sulla strada di una dimostrazione valida dell’esistenza di Dio e, a questo proposito, non può nemmeno aspettarsi un aiuto da lui.
Siamo così giunti al punto di ricordare il pensiero di Hume come esempio tipico di un soggettivismo metafisico.
Soggettivismo metafisico
Hume è, per quel che riguarda la ragione, un ateo: non ha motivi intellettuali né dimostrazioni teoriche dell’esistenza di Dio, quindi da questo punto di vista è illogico (irrazionale) per lui credere in un Dio, d’altra parte avverte i sentimenti d’insicurezza che il domani gli procura, teme la morte, spera allora in un aldilà, si appella alla bontà di un Dio generoso e non riesce a negare del tutto la sua esistenza. Egli conclude: "La fede (la credenza) in Dio è innegabile". Non bisogna pensare che le illazioni di Hume siano dettate dalla paura o dalla dappocaggine: dal punto di vista intellettuale, egli, sulla base di una conoscenza strettamente psico-fisica, non aveva prove dell’esistenza di Dio e non ne aveva nemmeno della sua inesistenza. Probabilmente il nostro filosofo si prospettava due possibilità pratiche e doveva scegliere tra una morte senza scampo e senza futuro, oppure quella di una vita noiosa senza fine. La scelta non sarebbe stata logica, ma psicologica, quindi puramente soggettiva e, altrettanto soggettivamente, molti filosofi moderni non si pongono il problema dell’esistenza di Dio, relegandolo, come Hume, nel regno dei cosiddetti sentimenti, o in quello della credulità e della soggettività.
Queste considerazioni basterebbero, ma il vero soggettivismo moderno, nel suo genere quasi senza precedenti, è quello esistenziale.
Soggettivismo esistenziale
Kierkegaard è Il capostipite riconosciuto dei filosofi esistenzialisti nel suo diario, il 1 agosto del 1835 egli scrive parafrasando: "Il mio problema non è di sapere come conoscere, ma cosa devo fare. Quello che per me è importante è sapere cosa Dio vuole da me. Ossia sapere quale sia la volontà di Dio per scegliere un ideale per il quale io sia pronto a vivere e a morire".
Kierkegaard cerca una verità degna di essere vissuta, non di essere pensata, vuol sapere cosa deve fare e non cosa deve conoscere: in breve egli vuole esistere il suo io nelle diverse circostanze della vita e non un io oggettivo razionale e cosificato. Non solo, egli crede che sia proprio questo agire personale, esistenziale, responsabile ed etico insieme, l’unico fine della sua vita che nello stesso tempo è anche mezzo per poterla compiere. Lo scopo ed il come del fare sono contingenti, alle volte del tutto occasionali, rappresentano un rischio, esigono un salto angoscioso in una terra di nessuno dove esiste un Dio del tutto diverso dal come si possa immaginare, che è un paradosso per l’uomo.
Questa esperienza angosciante e pericolosa è la nota dominante del soggettivismo moderno.
Il soggettivismo in generale nasce dall’esperienza, che diventa certezza, di quanto sia difficile intendersi tra uomini, con il risultato di una certa tolleranza nei riguardi dei giudizi altrui e di una ben maggiore nei riguardi di se stessi, per potersi svincolare da un’idea di un dovere obiettivo e valido per tutti.
In questo senso, se per Cartesio e per Kant il soggettivismo era ammesso per essere superato, già per Hume è utile, per i pragmatisti è opportuno, ma è solamente negli ultimi filosofi esistenzialisti che acquista quelle caratteristiche di radicalità che lo differenziano dal passato. Il soggettivismo moderno è ineluttabile, è quello di un esistere ‹colpevole›, destinato allo scacco, al salto nel buio e alle situazioni limite.
L’uomo sarebbe così destinato al fallimento oppure all’accettazione di un fallimento in vista di un futuro supposto, ma non certo e, in ogni caso, non attuale.
Per gli esistenzialisti il soggettivismo coincide con l’esistenza stessa dell’uomo senza che egli abbia la possibilità di potersene liberare.
Scetticismo e tolleranza
Bisogna distinguere il dubbio dall'indugio e dallo scetticismo. L'indugio consiste nel mettersi in dubbio per accertarsi con più prudenza, al posto di preferire l’incertezza per aver evitato la fatica della ricerca del vero e del bene, lo scetticismo invece dubita di tutto, ma soprattutto pensa che il dubbio non sia superabile.
In ogni caso, dal soggettivismo allo scetticismo il passo è breve. Per questo non dobbiamo tollerare né l’uno né altro, ma avere il coraggio di mettere quei libri in soffitta, che ce li propongono come inevitabili, per porre la nostra attenzione a qualcosa di più pensabile: non si possono cercare delle ragioni certe e nello stesso tempo non abbandonare quei dubbi infondati che ci impediscono di raggiungerle. Non dobbiamo nemmeno aver paura di perdere la cultura dei nostri giorni, meglio rimanere senza pane al posto di mangiarne uno indigesto perché è andato a male, soprattutto, vale la pena di comperare del pane fresco anche se costa di più.
Lo scetticismo è ancora più dannoso di quanto sembri a prima vista perché genera quel fenomeno che si chiama tolleranza e che nasconde, invece, una certa debolezza nei nostri stessi riguardi, prima ancora che in quelli altrui, tanto è vero, che dalla cosiddetta tolleranza si passa facilmente al suo contrario, che è l’intransigenza, quando sono in pericolo i propri interessi. In qualche paese dove si predica la tolleranza sono invece in vigore le pene capitali. Perfino nel campo della politica e non solo in quello del comportamento comune la tolleranza tiene solo fino ad un certo punto. Essa può allora manifestarsi in una disistima generale nei riguardi altrui che in pratica impedisce il colloquio e l’accordo.
In un certo senso, più che mettere i libri in soffitta, si tratta di mettere noi stessi o, almeno, quel che di noi che non è libero davanti alla verità, invischiato in tante remore un po’ come quelle descritte da Bacone che egli si era proposto di sgomberare per poterle sostituire con altre certezze.
In ogni caso – occorre ribadirlo – il nostro desiderio di verità non troverebbe nella filosofia moderna (o postmoderna) delle risposte semplici e concordi, ma una serie di teorie in disaccordo tra loro, come se fossero più delle preziosità culturali che non degli aiuti concreti.
Dopo un bilancio della cultura moderna che sembra così fallimentare è lecito tuttavia chiederci se i nostri maestri siano veramente da condannare senza appello. La persona di buon senso preferisce dimenticare, qualche volta persino compatire quelle ragioni più o meno filosofiche che hanno permesso l’orrore dei campi di concentramento e l’assurdo dei bombardamenti atomici, perché si sente in qualche modo compagno di quella tradizione che non è del tutto catastrofica se gli ha consegnato la fiaccola della vita, ancora accesa ad illuminare il suo cammino. Del resto, anche se lo volesse, non potrebbe far a meno degli insegnamenti che ha ricevuto ai quali si sente di corrispondere con riconoscenza, anche se, quando va a leggere questa o quella pagina dei nostri filosofi si trova diviso tra una stima, pur assertiva, che lo lega ai loro pareri e, nel medesimo tempo, una repulsione irritata che lo libera da imposizioni ideologiche.
In pratica ci dobbiamo chiedere come possa capire un uomo di buon senso gli insegnamenti dei suoi maestri anche quando è convinto che siano sbagliati. Qual è il motivo che egli può addurre per spiegare la sua riconoscenza verso chi gli insegna degli errori? Perfino un bambino a scuola non mette in discussione l’autorità di un insegnante, anche quando si sente trattato ingiustamente. Come mai?
A questo proposito la ragione da sola è insufficiente a dare una risposta che, a ben vedere, è più semplice di quanto si possa supporre. L’uomo non ama i suoi genitori con la ragione, ma con l’amore, che viene prima di ogni spiegazione, anche quando la esige e la cerca, così il discepolo non ascolta il maestro per criticare i suoi errori, ma con la fiducia che egli lo possa e lo voglia illuminare.
C’è nell’intimo dell’uomo sempre viva la speranza di vivere, che è un riflesso della certezza di aver ricevuto la vita; se egli non lo riconoscesse rifiuterebbe non tanto la vita, ma il ‹dono della vita›, tanto è vero che quando non si sente amato, soprattutto dai suoi genitori, preferirebbe quasi di morire e questo non accadrebbe se amasse sia la vita sia il dono della vita ricevuto da loro.
È con questo spirito, o almeno con questi sentimenti, che dobbiamo guardare ai nostri maestri per cercare non tanto di capire quello che ci hanno dato, ma di scoprire l’amore che lo ha dettato. Così facendo troveremo in noi stessi un amore accogliente e ne scopriremo uno in loro donante e, come noi accogliamo non tanto i doni, ma la bontà di chi li dona, così cercheremo in essi il vero bene e non gli errori occasionali che l'accompagnano.
È questa quella disposizione nei riguardi dei nostri simili, e in fondo di ogni realtà, che è già presente in ogni bambino fin dalla nascita, ancor prima che egli sia in grado di spiegarla con la ragione. Si tratta di una predisposizione spontanea, direi istintiva, in una parola, naturale, anzi dello spirito stesso della natura, ed è con questa disposizione che noi possiamo accogliere la cultura di chi ci ha preceduto. Non ci sono molti ragionamenti che tengano di fronte ai dati di fatto: un bambino che si separa dai genitori non può nemmeno vivere.
Ed è proprio nel bambino al primo apparire della vita che con maggior evidenza viene in luce la sua natura, quando non è stata ancora incrostata da sovrapposizioni che possano aver offuscato il suo splendore.
È quindi con questo animo che vogliamo studiarla per conoscerla: una volta scoperta la natura, giustificata la cultura, allora la costruzione di una filosofia adatta alle nostre possibilità diventerà così semplice da eliminare quasi la fatica necessaria per metterla poi in atto.
In pratica, a questo punto si tratta di fare una scelta di principio di ciò che è l’uomo secondo la sua natura, infatti, se dobbiamo ricominciare da capo ad impostare la nostra vita non possiamo che voler essere quello che siamo.
Ulteriori riflessioni sulla precognizione
Le predisposizioni cognitive
Il soggettivismo ci trascina in un dubbio di fondo non solo del perché della nostra esistenza, ma anche del suo valore.
In questo modo risulta difficile uno studio obiettivo delle realtà, sebbene persino il dubbio serve per incitarci a trovare un accordo più preciso con la realtà e con l’obiettività. Questa dichiarata ‹buona volontà› di superare le difficoltà è accompagnata da altre due predisposizioni ben diverse: l’intenzionalità e la deliberazione.
Voler capire per poter capire
Le considerazioni sul modo di affrontare la realtà sulla base di una natura incontaminata come quella del bambino indicano come accedere ad una conoscenza possibilmente senza errori.
Si tratta di quella disposizione o quel complesso di capacità che permettono all’uomo di conoscere e di interagire con il mondo che lo circonda, prima che egli se ne possa servire, anzi ancor prima di avvertirne l’esistenza.
Nella storia della filosofia molti filosofi hanno parlato di un apriorismo che permette all’uomo la conoscenza ma, se si considera il problema per sommi capi, sono rimasti con le loro considerazioni nell'ambito della ragione, ovverosia, quando il soggetto conoscente è già venuto in contatto con quella realtà che si è già rivelata come un dato di fatto ed è stata da lui percepita come un dato di ragione. C’è invece un apriorismo che veramente è una predisposizione, perché esiste ancor prima della conoscenza, anche se si manifesta nell’atto di conoscere. A questo proposito si può citare un esempio banale. Chi vuol fare il pane, anche quando non possedesse la tecnica della panificazione né avesse la capacità fisica per questo lavoro, tuttavia, per il solo fatto che pensa di farlo, si dispone fin dal principio a questa evenienza, così ogni uomo ancora prima di usare le regole per conoscere, e quindi prima ancora di metterle in pratica, possiede una ‹disposizione a disporsi› alla conoscenza che io ho chiamato ‹alfa a priorismo› per distinguerla dall’apriorismo comunemente inteso – ho poi sostituito il termine di alfa apriorismo con quello più semplice di pre-cognizione.
Questa disposizione non è ovviamente una conoscenza e, quindi, non è obiettiva, eppure è necessaria: è talmente importante che si dovrebbe premettere ad ogni ragionamento filosofico.
L’a-priori dell’a-priori dell’uomo, quello che viene prima di ogni cosa, è la sua disposizione positiva di accettare e accogliere con benevolenza le realtà del mondo che lo circondano, al posto di subirle per necessità con una disposizione sospettosa o negativa. Senza questa disposizione positiva e affettiva nei riguardi della realtà egli, prima di mettere in dubbio le realtà, si sarebbe già messo se stesso in dubbio e in contrasto nei loro riguardi.
Questa precognizione permette all’intelletto di conoscere e, insieme allo spirito, di giudicare, cioè assicura all’uno un esistere positivo ed all’altro una valutazione ‹non-compiacente› (serena), dove anche i limiti servono come indizi di guida e non come contraddizioni proibitive.
Il libro della realtà
Una conoscenza più facile dello scetticismo
Nessuno dei filosofi pensa che la propria filosofia sia sbagliata – nemmeno gli scettici che sostengono la verità della mancanza di verità – invece tutti gli uomini, anche i filosofi, sperimentano una così limitata capacità di tradurla in pratica da ammettere che, alle volte, è quasi più insensata la stessa vita dello stesso pensare di viverla. In altre parole quando l’uomo vuole concretare i suoi progetti per un verso guarda la realtà con la sicurezza di poterla ‹verificare› – renderla vera nel senso di concreta –, per un altro verso, tuttavia, ha l’impressione certa che non arriverà a capirla mai: la realtà è per lui come un libro aperto e chiuso nello stesso tempo. Ebbene, egli può accettare questo libro magico e tentare di riaprirlo tutte le volte che si chiude, oppure strappare le sue pagine ad una ad una per tenerle aperte davanti a sé. A prima vista, sembra quest’ultimo modo il più efficace per assicurarsi la libertà di imporsi e, invece, è, di fatto, una rinuncia a leggere tutto il libro per accontentarsi di poche pagine sgualcite. Dover ritornare sempre da capo ad aprire il libro sembra una resa davanti alla strapotenza della realtà con la conseguenza di essere obbligati a aderire ai suoi dettami dogmatici e, invece, presuppone un colloquio paritetico con ciò che il libro racconta e che in fondo non può nascondere del tutto ma, soprattutto, è quella posizione che permette all’uomo di uniformarsi alla realtà al punto di sentirsi un tutt’uno con essa e, nel medesimo tempo, di avvertirne tutta la lontananza fino a sperimentare il sé e la propria distinzione. Per ritornare all’immagine dell’esempio, il mistero del libro chiuso ci parla di distinzione, la rivelazione delle sue pagine aperte di unità.
Anche questi due comportamenti, che vengono prima di qualsiasi conoscenza e di ogni agire, che sono spontanei, ma che possono essere voluti o rifiutati, descrivono quella disposizione dell’uomo che ho chiamato precognizione.
Precognizione negativa
In pratica esiste un apriorismo positivo, che è una precognizione positiva e, al contrario, una precognizione negativa. L’esposizione di quella negativa serve a capire meglio quella positiva.
Quando si dà corda al malumore, si è già in uno stato di pessimismo che conferma e rafforza l'insoddisfazione e l'amarezza, al punto che ormai ci si trova in contrasto e in lotta contro ciò di cui dovremmo conoscere per potercene servire e che ancor prima avremmo dovuto ringraziare d'averlo incontrato. Mentre chi si è abituato a far festa allo sconosciuto fastidioso è già sulla strada per farselo amico. In pratica non si può conoscere quello che non si ama. Una mamma conosce suo figlio perché lo ama e ama il figlio perché lo riconosce essere ‹suo› e perché sa che gli appartiene come un dono e non come un possesso.
Precognizione e pregiudizio
A questo proposito bisogna ancora distinguere tra precognizione e pregiudizio. La precognizione è una disposizione in ordine alla conoscenza che è aperta e positiva mentre una precognizione negativa, diventa facilmente un pregiudizio, che consiste nel credere di conoscere qualcosa che non si è nemmeno preso del tutto in considerazione o per presunzione, o per leggerezza.
I pregiudizi sono sempre soggettivi e rimangono sempre tali, alle volte si basano su un’affettività distorta che non permette allo spirito una completa unità tra soggetto ed oggetto conosciuto.
Sensibilità e precognizione
Un'altra considerazione riguarda il rapporto tra conoscenza sensibile e precognizione. È ovvio che ogni conoscenza da parte dell'uomo inizia con la sensibilità, persino quando è frutto di una comunicazione di cose mai viste, presuppone delle immagini e necessita delle descrizioni relative che la rendono visibile, prima ancora di toccarla.
Eppure a questo assunto manca qualcosa, pur preso in considerazione strettamente nel campo della sensibilità. Quel che manca è il ruolo dell’affettività. La volontà ordina la sensibilità: l’uomo percepisce con i sensi prima ancora di percepire, ovverosia istintivamente e senza riflettere, tuttavia con i sensi avverte, ma senza affettività non può conoscere. In questo modo con i sensi inizia la conoscenza, ma per continuarla, li usa prevalentemente in quel modo con il quale egli li vuole usare. Un animale usa sempre, e sempre nello stesso modo, i suoi sensi, senza coscienza e senza volontà – pur ammettendo che in qualche modo possa avere una certa conoscenza sensibile. Un uomo vede, quello e come vuole vedere e non vede quello e come non vuole vedere, infatti, la precognizione viene prima di qualsiasi apriorismo cognitivo. L’uomo è un animale libero a priori e solamente dopo conoscente a posteriori, prima volente in un dato modo, ancor prima di essere sensibile, e poi razionale – anzi la sua volontà non incide solamente sulla ragione, ma anche sui sensi e deforma perfino le sensazioni. Questo ‹a priori› avviene sempre nello stesso tempo insieme alla ragione ed alla sensibilità, perché l’uomo è un’unità, ma è anche prima perché l’uomo possiede facoltà distinte, e le fa procedere secondo preminenza, o prima, o insieme, o dopo, nel tempo. Il tipo di precognizione, quindi, può essere diverso, ma non può mancare, poiché le sue possibilità sono a priori.
Ma non solo l’uomo usa la sensibilità nel modo che vuole, egli ancora risponde agli stimoli sensibili in un modo diverso a secondo della propria volontà, e non condizionato necessariamente dalla sensibilità dei fattori esterni alla sua coscienza. Io, anche quando ho fame, non rubo il pane, perché quasi istintivamente non voglio, per via delle virtù infuse, prima ancora che per ragioni logiche. Un animale non ha questi problemi, né le relative soluzioni, semplicemente perché non ha né coscienza, né libertà.
Conoscere e voler conoscere
Se noi conosciamo solo quel che vogliamo conoscere non dipende dal fatto che noi abbiamo già in qualche modo conosciuto, ma solamente che noi siamo stati avvertiti dai sensi di un qualcosa di esterno al nostro fisico che non ci appartiene, ma di cui siamo venuti in contatto per l'appunto, solamente con il fisico. Dunque vedere e volere si presuppongono reciprocamente. Le due predisposizioni si condizionano l’un l’altra; tuttavia la precognizione non consiste tanto nel voler vedere la realtà, ma nel modo in cui la si vuol vedere per poi conoscere. È una decisione sul modo: ripetendomi, prima di voler conoscere bisogna decidersi in che modo, perché questo consiste in un ‹ordinarsi a…›, in altre parole, implica e presuppone un ordine insito nel rapporto stesso.
Io posso volere con bontà, oppure malvolere, mentre il processo cognitivo in senso stretto non riguarda i sentimenti e gli affetti, ma la recettività, oppure una reazione alla necessità, o all’interesse egoico. La precognizione nelle sue diverse predisposizioni costituisce quel modo di rivolgersi positivamente o negativamente nei riguardi della stessa ragione, prima ancora, o meglio indipendentemente dal rivolgersi con la ragione alla realtà. Esiste quindi come avvertenza volitiva e non come avvertenza logica, in pratica è una coscienza che di per sé è attiva, sia senza, sia insieme alla cognizione logica. Si può usare uno strumento, per esempio un martello, per distruggere o per costruire, per battere il marmo e formare una statua oppure per ridurlo in frantumi: dipende dal modo in cui uso il martello, e questo fa parte di una certa tecnica, ma non basta, bisogna amare anche quest’arte del martellare come sa, può e vuole un costruttore. Così non basta volere conoscere, ma è necessario amare la conoscenza. Per conoscere bisogna volere ed avere un volere ordinato alla conoscenza e, quindi, adeguato alla realtà e rispettoso di essa. Senza rispetto non si va in casa d’altri e il mondo che ci apre le porte non è nostro, e non l’abbiamo fatto noi.
È verissimo che la volontà non può determinare se stessa: non si può volere senza sapere, ma in questo modo si confonde il voler conoscere e il saper conoscere. La volontà può auto determinarsi in quanto modo e maniera. I’uomo può essere ‹buono› anche nei riguardi del male e amare anche i nemici, se ha un animo buono senza dipendere dall’oggetto conosciuto al quale la volontà si rivolge, per questo prima possiede una volontà buona e poi riconosce il bene e, quindi, lo vuole, oppure ne ha una cattiva e quindi vuole il male, anche nei confronti di chi gli vuole bene.
Questa pre-volontà ha un versante rivolto all’esistere, per cui presuppone un conoscere attuale, ed un altro rivolto allo spirito per cui è innata; di fatto, è ciò che unisce il genotipo con il fenotipo filosofico, ovverosia quel che appare come qualità con quel che possiede come peculiarità. Essa ha il suo perché nella stessa vita dello spirito della persona o della realtà. Lo spirito manifesta le sue virtù ed agisce di per sé, non confuso, ma unito, non separato ma distinto dall’essere e dal divenire.
Facciamo un esempio.
Io dico ad una persona: “Lei vuol bene a Xy?”, e quella mi risponde: “Non lo conosco“. Ebbene questa risposta è logica solo fino ad un certo punto, infatti, se l’interrogato ha uno spirito buono vorrà bene a codesto Xy anche se non lo conosce, mentre se ha un animo cattivo, o indifferente, non solo non gli vorrà mai bene, ma sarà perfino irritato se costui manifestasse dei sentimenti positivi. È la ‹natura›, anzi la coscienza – la natura riguarda l’essere, la coscienza lo spirito – che rivela una volontà positiva o negativa e che manifesta quella disposizione che ho chiamato precognizione, l’ha anche un bambino che non ha ancora una volontà esercitata ed una conoscenza matura.
Del resto un esempio del genere non è del tutto astruso e può essere paragonato alla teoria di Rawls, che sembra appunto fondare la conoscenza dell’etica sociale su quei principi universali, che sono della pura ragione pratica dell’uomo, o meglio, propri del suo spirito e che vengono prima della conoscenza e della volontà di tradurli in atto.
Rawls immagina – senza troppa fantasia, ma con buona pratica – una società di uno stato dove convivono persone di classi sociali diverse, alcune più fortunate e altre in veste di schiavi o di paria sociali, con l'incarico di stabilire nuove leggi che mettano ordine nel vivere comune. Ebbene, se ciascuno di questi scienziati non sa quale sarà il suo ruolo sociale in seno alla nuova comunità riformata, cioè se quello di una persona dotata oppure semplice, se un lavoratore oppure un imprenditore, se donna o uomo, se nero o bianco, si troverà d'incanto senza egoismo e potrà formulare delle leggi giuste e universali. Il quadro è idilliaco e prevede un gruppo di scienziati con una coscienza purificata da qualsiasi egoismo, che emetterà delle leggi finalmente razionali e non ingiuste. Dalla mia descrizione dell'esempio immaginato, appare evidente che le leggi di questi scienziati sarebbero ragionevoli, ma non è chiaro come trovare degli uomini non egoisti anche se scienziati. Tutto questo serve a sottolineare che bisogna sempre distinguere la volontà dalla ragione. La sola ragione non basta, anzi è meglio aver a che fare con una persona semplice ma buona, piuttosto che con una istruita ma malvagia.
L’‹organo› della precognizione
La predisposizione alla conoscenza che ho chiamato ‹precognizione› fa parte dell’affettività o della ragione?
Anzi ci chiediamo se nel processo cognitivo viene prima la ragione o l’affettività. Di per sé non viene prima l’affettività o la ragione, ma l’uomo originariamente tutto intero conosce ed inizia ogni conoscenza, anzi prima ancora dell'uomo esiste una totalità e una unità universale che, se è unità, presuppone l’Uno di se stessa.
In altre parole se l'uomo incontra una realtà qualunque particolare e insieme a essa costruisce un ente che si chiama conoscenza (acquaintance) questo significa che l'uomo e la realtà possono costruire insieme qualcosa che prima non esisteva.
A questo punto l'uomo spontaneamente si chiede come mai un accordo del genere che non è occasionale, ma che una volta costruito è diventa ripetibile per abitudine o per necessità? La risposta non consiste nel sapere il perché, ma nel constatarlo come se fosse una legge inderogabile stabilita all'insaputa del conoscibile e del conoscente. Le domande non si fermano a questo punto. Infatti l'uomo si chiede: se esiste questa legge dove la posso leggere per metterla in pratica. La risposta è semplice: questa legge fa parte di un codice che descrive e prescrive l'ordine della conoscenza prima ancora che conoscente e conosciuto si siano intesi per metterla in atto.
Quindi la precognizione non viene prima della ragione umana che conosce o invece prima della volontà umana che vuole conoscere, ma precede sia l'una che l'altra disponendo ambedue alla conoscenza, nel medesimo tempo, che precede le possibilità del conoscibile di formare insieme all'uomo il nuovo ente che abbiamo chiamato conoscenza (acquaintance).
Dobbiamo quindi definire la precognizione di cui l'uomo si serve come quella legge o quella falsariga che egli usa per conoscere e che è parte della legge generale di qualsiasi conoscenza. In altre parole la precognizione è una partecipazione dell'uomo alla precognizione universale che permette sia la conoscenza umana sia qualsiasi rapporto di tipo relazionale tra le varie realtà dell'universo. La precognizione ha quindi un valore generale, ma nell'atto di essere applicata in una conoscenza particolare diventa una sorta di strada locale e particolare come sono i codicilli e i paragrafi di un codice che riguardano un dato caso e non un’intera giustizia, ma che non cadono all'infuori dell'insieme che informa il codice stesso.
Dopo questa definizione devo anche aggiungere che io non vorrei limitare la mia considerazione a questo assunto, ma premetterla per rivolgermi all’influenza della volontà nell’attività cognitiva.
Una precognizione positiva è fondata su quelle mozioni affettive che noi chiamiamo virtù, mentre una precognizione negativa dipende da un contrasto latente tra ragione e affettività, o meglio, tra un prevalere di un tipo di razionalità che pretende di amministrare ed impossessarsi degli affetti senza diritto e senza capacità di farlo. Di per sé la ragione ha a disposizione gli strumenti per conoscere che sono la percezione, la concettualizzazione e la significazione della realtà conosciuta, ma non è proprietaria, degli strumenti dell’affettività; d’altra parte ha la necessità di usarli per raggiungere una conoscenza completa e pura che non sia solamente analitica e chiara. A questo scopo deve chiedere in uso allo spirito dell’uomo un certo possesso dei suoi strumenti che sono le virtù. La ragione li può ottenere in uso, non in proprietà e non li può coartare arbitrariamente, pena il disordine ed il contrasto con chi ne ha il pieno deposito e il doveroso esercizio e che ha anche il diritto di reclamare una usurpazione indebita. Si tratta di quel fenomeno che va sotto il nome di ‹voce della coscienza›. C’è una voce della conoscenza che consiste nelle parole del discorso e c’è anche una voce della coscienza che consiste nelle virtù delle mozioni affettive.
In pratica quando io ascolto il mio simile non posso sapere se mi rivela il suo sé – non lo posso conoscere come cosa in sé – ma anche non posso fidarmi del mio sé per giudicare il rapporto e fondare la mia conoscenza, ma se faccio tacere ogni mia soggettività e non ascolto qualsiasi oggettualità fornitami dall’interlocutore, e se mi dispongo completamente al servizio dell’obbiettività, allora avviene una ‹rivelazione›, che è anche esperienza di unità, perché nel rapporto parla l’unità dei due interlocutori.
In altre parole bisogna affermare che una conoscenza che genera disunità, divisione, opposizione, contrasto e che tra gli uomini genera lotte e guerre, non solo è irrazionale, non solo è ‹non libera› e non voluta, ma semplicemente è un falso in atto, ovverosia è una ‹non-conoscenza› della ragione e nello stesso tempo una incoscienza dello spirito dell'uomo.
Il vero problema non sta nel chiederci se è possibile una conoscenza vera, ma se è possibile una conoscenza che non sia onesta e quindi in che modo poter rimediare alla disonestà. A proposito di questo problema dobbiamo ancora approfondire le considerazioni sull'ordine e sulle virtù dell'uomo come ci siamo già ripromessi di farlo.
Altre considerazioni sulla precognizione
Riporto qui altre considerazioni ed altri esempi sulla ‹precognizione›.
La precognizione ha la facoltà di motivare chi non è motivato. In altre parole, una persona che si sente amata è capace di far gradi cose. Questa asserzione è vera se la persona amata non se ne approfitta, ovverosia se ama a sua volta, infatti, 1) si accorge dell’amore che riceve, 2) accoglie l’amore, 3) è disposta a rispondere con riconoscenza e, tutto questo, perché lei stessa ama e, se non avesse amore, non si muoverebbe nemmeno.
La precognizione è questo amore che predispone ad accogliere e a rispondere alla realtà per costruire con essa opere incommensurabili che si chiamano ‹conoscenze-quasi-ente› e che iniziano con il conoscere e si formano con il riconoscere. La precognizione in pratica è una predisposizione affettiva che può essere positiva quando è amore o negativa quando è odio.
Essa è spontanea e quindi sfugge in un primo tempo alla ragione, ma è avvertita dalla coscienza dello spirito che in questo modo muove la ragione al ‹riconoscimento›.
A questo proposito riporto qui un altro esempio.
Qualcuno suona alla porta di casa. Prima di aprire, colui che vi abita lo guarda dallo spioncino. Cosa vede costui?
Vede un uomo, ma chi è?
È il Tal dei Tali, oppure è un poveraccio male in arnese o, ancora, uno sconosciuto qualunque?
Sono tutte domande che dipendono, o da una circostanza esterna che vuole essere conosciuta, o da una ragione interna che vuol rendersi conto, ma anche da una affettività che si traduce in una accoglienza, oppure in un rifiuto. In pratica, la persona che guarda dallo spioncino si trova a confrontarsi con 1) un dato di fatto, 2) un dato di ragione, ma anche 3) con un ‹dato di cuore›. Ora, mentre il fatto e la ragione non nascono spontaneamente, il cuore, ovverosia l’affettività; è già presente, ancor prima di essere avvertita.
La precognizione dipende da un dato che è un ‹dato di cuore›.
Si tratta dell’affettività. Essa permette non solo la conoscenza razionale di una realtà effettiva, ma avverte l’affettività dell’oggetto come se fosse un riflesso della propria, e che l’interlocutore possiede, anche se non lo ha ancora avvertito con la ragione. In pratica la precognizione non è solamente una disposizione affettiva del soggetto, ma è anche una predisposizione dell’oggetto, perché è un dato di cuore che, come i dati di fatto, esiste di per sé, e non dipende dall’essere avvertito. Infatti, come una realtà, per il solo fatto che esiste materialmente si presenta alla conoscenza non solo in se stessa ma anche nei riguardi di chi l’incontra, così la precognizione, per il solo fatto che esiste è insita sia nel soggetto sia nell’oggetto che vengono in rapporto.
Mentre la ragione distingue e la realtà afferma se stessa, l’affettività predispone e quel clima dove ragione e realtà del soggetto e, nello stesso tempo, dell’oggetto possono incontrarsi in unità per formare ‹ontologie› (realtà) sempre nuove e sempre rinnovantesi.
C’è quindi una sorta di affettività superiore alle varie realtà come si presentano tra loro separate, che ha la forza di ordinare i rapporti, ma non nel senso che ha la possibilità di negare l’affettività personale degli interlocutori distinti. Si tratta della ‹Onni-potenza› dell’‹Ordine› e non della inettitudine della violenza o della imposizione. Certamente chi usa rapporti che sono solamente imposizioni non l'avvertirà nemmeno e concluderà che la precognizione è una fantasia che non esiste, o meglio, che rappresenta un qualcosa che si può solamente accettare senza capire e senza discutere ma, questo, sempre perché per conoscere ‹Amore› bisogna avere amore e solamente chi ha amore è nell’Ordine ed esiste nella Libertà.
Gemüt, Gefühl e precognizione
Come le conoscenze iniziano con le sensazioni, così le mozioni delle virtù si manifestano originariamente nei sentimenti. In tedesco ‹Gemüt› significa indole, temperamento, natura, ma ‹Gemütlos› non significa senza temperamento, bensì senza sentimento. ‹Gefühl›, invece, significa sensazione e sentimento. Le due differenti traduzioni sembrano indicare che esistono dei sentimenti passivi e dei sentimenti attivi, ovverosia che noi veniamo sensibilizzati dalla realtà e anche che noi possiamo avere dei sentimenti nei suoi riguardi che non sono unicamente un ‹sentirla›, ma anche un ‹volerla sentire›. Questa distinzione tra sentimenti attivi e passivi coinvolge tutta l’affettività dell’uomo, al punto che la stessa volontà ne resta influenzata. L’uomo vuole se sente, ma se non ‹vuole volere› non ha nemmeno dei sentimenti.
La precognizione inizia con questo ‹voler volere›. Senza dei sentimenti obiettivi non si può avere una affettività ‹intonata› (adeguata), né tanto meno una razionalità ‹adatta› della realtà.
In pratica l’uomo nel rapportarsi alla realtà è portato naturalmente e spontaneamente a provare e a manifestare dei sentimenti e delle sensazioni. Come le sensazioni possono essere piacevoli o spiacevoli, così anche i sentimenti. È a questo punto che l’uomo comincia a distinguersi dagli animali. Gli animali rifiutano le sensazioni spiacevoli ed accettano le piacevoli, mentre l’uomo si domanda sul significato di questa sensibilità, ma nel porsi questa domanda deve accettare sia il piacevole che lo spiacevole e questo lo può fare non provando solamente il piacere, ma sentendo compassione per il male e gioia per il bene, in altre parole attribuendo ai sentimenti un significato affettivo reale in ordine alla comprensione di un significato logico ipotetico della sensibilità provata.
La precognizione in questo senso precede ogni conoscenza. Questo processo di comprensione affettiva è spontaneamente avvertito e può essere sempre approvato e quindi voluto, oppure negato e rifiutato e io l’ho chiamato precognizione. Di per sé essa non precede, ma è primordiale, come l'occhio non precede la vista, ma è un mezzo per vedere; essa accompagnerà tutte le fasi dello sviluppo successivo della conoscenza, per questo senza precognizione non c’è conoscenza, per cui la sua precedenza riguarda l’importanza e la necessità e non il tempo del suo impiego. In pratica la precognizione è stata forse sottovalutata o non presa sufficientemente in considerazione. La sua importanza sta nella sua assoluta necessità e nel fatto che distingue l’uomo da qualsiasi altro vivente. Per comprendere questa importanza bisogna distinguere la ‹cono-scenza› logica dalla ‹co-scienza› dei sentimenti nei riguardi della realtà. La conoscenza logica ha un suo processo regolato dai principi del vero, mentre la coscienza affettiva è ordinata dalla virtù dell’unità.
Il fatto che i sentimenti siano nello stesso tempo attivi e passivi significa che essi indicano un rapporto paritetico tra l’oggetto conosciuto ed il soggetto conoscente, non nel senso di aver essi uguali possibilità, bensì uguali diritti che si basano sulla natura propria dell’essere di ciascuno dei due in relazione. È evidente che in questo modo di considerare le cose, non esiste un apriorismo, o un a posteriori, indipendenti l’uno dall’altro e ancor meno non esiste una potenza o una volontà necessaria e preminente di uno dei due; ma non esiste nemmeno una super volontà che comanda ai due come se loro non avessero sentimenti e non fossero determinanti – non che sono solamente determinati – ciascuno nel voler conoscere e nel sentire l’ordine della conoscenza stessa. È su questo assunto che trova il suo valore e la sua attuazione pratica la libertà dell’uomo e, entro i suoi limiti naturali, dell’intera realtà, perché ciascun attore trova e costituisce un ordine e non si deve sottomettersi supinamente, né può imporre una necessarietà. L'ordine non è una costrizione esterna, ma un legame omni-comprensivo che permette la libertà delle relazioni, ovverosia che le libera dalle costrizioni e dalle impossibilità.
Definizione di precognizione
Fin dalle prime considerazioni su questo argomento ho sostenuto che senza una predisposizione particolare non si può avere una conoscenza vera della realtà e ho cercato di descriverla con i termini di positiva, attenta, ottimista, piena di amore e di rispetto per le cose e le persone conoscibili, ma solo ora mi pare di aver trovato una definizione di questo assunto.
La precognizione consiste in una disposizione ordinata all’unità tra conoscente e conosciuto.
Infatti, se si guarda alla realtà come un qualcosa che ci appartiene e alla quale noi ci sentiamo di appartenere, noi ci indirizziamo quasi spontaneamente alla costruzione insieme all’oggetto conosciuto di una conoscenza che è una realtà concreta, ovverosia un quasi ente, oppure, al contrario, si può percepirla come un fascio di sensazioni e anche di sentimenti, ma non certo come un qualcosa che può manifestarsi per quel che è e per quel suo essere parte consistente e mattone reale di un intero universo così come lo è per i singoli rapporti particolari.
Il dono e le virtù
Con la descrizione della precognizione come predisposizione necessaria alla conoscenza appare evidente come essa non sia solamente un sentimento aleatorio di benevolenza perché, nella pratica comune, si traduce nella ricerca voluta di tutto ciò che risiede nell’oggetto conosciuto che sia accettabile, desiderabile e infine gratificante. In questo modo, la conoscenza ci rivela non solo le ‹qualità› dell’‹esistere› ma anche le ‹caratteristiche› del suo stesso ‹essere-natura›; d’altra parte abbiamo visto come esso possa esplicarsi in un esistere che dipende da tutto ciò che lo circonda,.
Ebbene, come noi abbiamo ricevuto in dono la nostra natura, allo stesso modo abbiamo ricevuto sempre in dono, senza averlo chiesto e senza dover dare qualcosa in contraccambio, tutto quello di cui ha bisogno per iniziare, sviluppare e portare alla maturità la sua esistenza.
Il significato del dono sta tutto in questa gratuità che è una sorta di chiave che spalanca la porta sul regno dell’affettività.
Quindi:
dalla precognizione alla accettazione del dono dalla accettazione alla conoscenza. Dalla conoscenza alle conoscenze e, quindi dal dono scambievole alla riconoscenza reciproca.
L’economia del dono
Il termine ‹dono› indica diversi significati che si rincorrono l’un l’altro per via di conseguenze.
Al significato di dono è spontaneamente connesso quello di bene, che è liberalmente offerto e liberamente accettato. Un dono è sempre senza alcuna costrizione perché si fonda su un ordine che non è solamente quello razionale e reale, ma non per questo è irrazionale o innaturale. È dettato da quel sentimento così forte che si chiama amore che rappresenta ciò che non è abituale, ma non anormale, bensì straordinario. Chi non riconosce la straordinarietà di un ordine senza utile e senza guadagno difficilmente conosce l’amore ideale.
Dal dono al bene, dal bene al volere il bene, e dal volere a farlo, c’è tutta una vita che non è propriamente un esistere e nemmeno un essere, ma più precisamente una sorta di salute ideale, non solo fisica, ma più forte del fisico, al punto che può perfino contribuire a rimetterlo in forze quando è ammalato. Si tratta del regno della coscienza, che è non solo quello della morale e dell’etica, ma soprattutto delle virtù e, perfino, dell’estetica. In una parola – dobbiamo pur assegnargli un termine proprio – si tratta dell’ordine che vige nel regno dello spirito.
Il bambino – l’uomo allo stato naturale – non compera la realtà ma la riceve in dono. Sia la compera, sia il dono riguardano l’offerta e l’acquisto dei beni che presuppone una loro gestione. Non si tratta solo di una amministrazione che riguarda lo scambio di cose utili, ma di una ‹economia› che riguarda sempre cose concrete e reali, ma l'economia, a differenza dell'amministrazione, dipende maggiormente dalla volontà affettiva dell’uomo più che dalla sola ragione. Il significato comune del termine ‹economia› è quello che la definisce come una scienza che riguarda la produzione, la distribuzione, lo scambio e il consumo di beni e del bene per cui le realtà diventano servizio per i singoli e per i singoli tra loro. In altre parole l'economia riguarda l'uso razionale dei beni secondo 'ordine che regna nella distribuzione delle parti di un insieme.
Un'altra definizione, forse più aggiornata definisce l'economia come quella categoria che riguarda la natura la conoscenza e l'ordine dei beni e del bene; in particolare la produzione il consumo e la distribuzione dei beni per il raggiungimento di un bene massimo.
La differenza tra le due definizione poggia su due motivi. Il primo sta in quel significato di economia come «ordine che regna nella distribuzione delle parti di un insieme», il secondo nel dato di fatto che esiste anche una economia del dono tra le popolazioni cosiddette primitive ma, fortunatamente, anche nelle nostre famiglie, con i nostri amici e tra tutte le persone che non hanno solo ricchezze e interessi, ma anche, per l’appunto, beni da donare.
Le economie del dono sono un vero rompicapo per gli antropologi e un problema per i sociologi che hanno a che fare con le popolazioni in via di sviluppo, per il semplice fatto che gli uni e gli altri si sono per lo più dimenticati che anche tra noi esistono i doni e le persone che hanno una economia basata sul dono. Alle volte, gli economisti, pur sempre degli scienziati, possiedono o usano prevalentemente una razionalità concettuale, non sempre ideale, qualche volta persino ammalata di erotismo o almeno limitata al solo utilitarismo, che non contempla ovviamente l’elargizioni di benefici senza compenso. Del tutto diversa è l’economia di un padre che riguarda l’uso controllato dei propri beni in vista di quel fine particolare che è l’armonia familiare. Da questo punto di vista non si capisce come mai quel che vale nella piccola società familiare non debba essere opportuno in quella più estesa di un paese o di una nazione che, allo stesso modo, voglia essere ordinata nell’armonia. I popoli primitivi non erano poi tanto sempliciotti, come si potrebbe credere, se avevano previsto al riguardo una economia del dono. Ma anche nella nostra società esistono delle istituzioni che prevedono qualcosa del genere: basta citare gli ordini religiosi o anche l’associazionismo non-profit così in voga al giorno d’oggi. Tutto questo semplicemente perché l’uomo non è solo ragione, ma è anche spirito, non è solo scienziato e operaio, ma anche persona ricca di amore e di sentimenti; anzi l’uomo allo stato naturale, come il bambino non ancora rovinato da false culture, usa prima l’economia del dono e solo quando ha sviluppato la ragione e esercitato le virtù si arrischia ad amministrare i beni con il baratto ed il commercio, ma non perché debba rinunciare ad amare e a conoscere, bensì perché ha imparato ad usare l'amministrazione come uno dei mezzi più precisi, che non solo permettono di realizzare un ordine benefico e una responsabilità avveduta, ma anzi lo possono rendere più facile e più consistente.
Il dono non si spiega e non si capisce senza l’affettività: ‹non si spiega›, cioè non dà ragione di sé, infatti, il dono è possibile da parte di chi ha un affetto amorevole e, quindi, è solamente comprensibile se non da parte di chi lo accetta per legarsi al donatore con un affetto corrispondente.
Parlare, quindi, di ‹dono› significa prendere in considerazione l’affettività che ha due risvolti: il primo riguarda le virtù il secondo la volontà
Le virtù in generale
Il termine ‹virtù› comprende in sé due significati.
Il primo indica una sorta di qualità dell’uomo e del suo agire, che come tutte le qualità, sono connesse con il suo esistere visibile; il secondo significato indica una peculiarità o una qualità-eccellente o, in altre parole, ‹qualità-campione›.
Ciò che eccelle non può essere che uno e non tanti; in questo senso esiste una sola virtù, che tuttavia si differenzia in particolare nelle virtù cosiddette infuse: si tratta della virtù dell’amore – nel senso di agape o di carità – che riunisce in sé quelle della fiducia, della benevolenza e della speranza. Queste virtù non si possono esercitare isolatamente una per volta, ma insieme nel contesto dell’amore, infatti, senza fiducia non c’è nemmeno benevolenza e se non manca la fiducia non è assente la speranza. In ogni caso le virtù esprimono l’ordine stesso dello spirito dell’uomo e ne sono anche la misura e la promozione: in pratica sono come delle leggi o come una specie di ‹unità di misura› sui generis.
Questa legge-misura è insita nello spirito dell’uomo e non dipende strettamente dalla ragione, per cui anche un bambino, con una intellettualità non ancora sviluppata, capisce, per esempio l’amore ed è capace di amare, oppure si consola per la fiducia che i suoi ripongono in lui e non mette in dubbio la sua nei riguardi dei genitori.
Quello che Platone pensava delle idee, quando asseriva che fossero innate e che venissero ricordate nel contatto con le realtà che le rappresentavano, è invece proprio delle virtù che non solamente sono ricordate, ma sono anche la misura e la mozione dell’agire e del pensare dell’uomo – al punto che senza di esse egli non può formulare le idee. Infatti, mentre una mamma per far conoscere un qualcosa che il suo bambino non ha mai visto glielo deve spiegare con delle immagini e delle similitudini, non perde invece mai tempo a spiegare, per esempio, cosa sia l’amore e la bontà, ma li pretende come cosa ovvia, perché sono insite ed innate nello spirito dell’uomo. È improprio asserire che esse non siano una misura, ma solamente una qualità o una ricchezza, per questo il termine virtù è omonimo ma non sinonimo di quei significati che riguardano le qualità tecniche e razionali dell’agire umano.
Quello che è sbagliato è attribuire ad esse il significato di equità tra due opposti o quello di ridurle ad una ‹mezza misura› tra due differenze, come se ciò che è ‹eccellente› fosse uguale ad ‹esagerato›, se non si fermasse a metà strada tra il meglio ed il peggio. Esse, invece, come tutte le leggi, indicano un limite, al di là del quale si incorre in una trasgressione, ma non impediscono un’osservanza fino alla perfezione di ciò che esse promuovono. Non è tanto virtuoso chi ha imparato ad amare senza mettere a rischio la propria integrità, ma chi ama non solo con magnanimità, ma anche con giustizia, al punto di amare sé come gli altri e gli altri come se stesso. In questo senso l’esercizio delle virtù le consolida e le rende pane quotidiano della vita perché, come chi disobbedisce ad una sola legge va contro il diritto (e la morale) e diventa ingiusto, malgrado abbia adempiuto fedelmente tutti gli altri suoi doveri, così chi rompe la catena degli atti virtuosi, si auto esclude dall’ordine che esse promuovono e, anche se non è diventato vizioso, non è più nemmeno virtuoso. Infatti l’effetto dell’applicazione delle virtù è simile a quello delle leggi e consiste nell’ordine.
Alle volte si dice che la felicità è il compenso d’una vita virtuosa e non si può negarlo, pur accompagnata da tante traversie ed incomprensioni, ma piuttosto il vero premio consiste nella pace che poggia sull’ordine e l’armonia: è questa la radice della felicità e ne è anche la corona. La sola felicità sarebbe qualcosa di soggettivo, o almeno di personale, mentre l’uomo virtuoso, che non è certamente felice di vivere tra nemici, tuttavia è in pace perfino con loro, infatti, ha la capacità di generare un ordine intorno a sé, perché già prima lo ha costituito in se stesso.
Per questo, se gli antichi ascrivevano alla giustizia il ruolo di regina delle virtù, noi preferiamo riconoscerlo nella virtù dell’amore, non solamente intesa come sentimento di benevolenza, ma come capacità di generare l’unità personale in se stessi e sociale nel rapporto con i propri simili, nonché naturale con le varie realtà. La sola benevolenza, sarebbe perfino inferiore alla prudenza ed alla giustizia, perché sarebbe una virtù, per così dire, meno sociale di queste ultime. In questo senso, la stessa sapienza senza amore, o con poco amore di benevolenza, non è contemplazione della realtà, perché non scopre sempre il bene che essa annuncia: diventa invece una specie di comportamento pratico o solamente opportuno, senza raggiungere l’unità con il Sommo Bene, perché rimane nel campo del razionale, ma non coinvolge tutto l’uomo, ragione ed affettività comprese.
Le passioni
Un’altra considerazione da fare a proposito delle virtù è quella che riguarda le cosiddette ‹passioni›. L’uomo virtuoso non avverte, o meglio si dice che non dovrebbe avvertire, i propri turbamenti interiori e quelli causati da circostanze estranee alla sua volontà. Noi preferiamo quell’uomo che si lascia turbare fino a quel patire che è il presupposto del sacrificio di sé sull’altare delle virtù. Difficilmente ama chi non sa patire la sofferenza del suo simile. Abbiamo, infatti, detto che l’amore vero non è solo benevolenza, ma anche unità. Può darsi che ci sia qualcuno talmente perfetto da non patire qualsiasi imperfezione in proprio, ma se non patisce quelle del suo simile, come potrà amarlo? Una mamma patisce i dolori del suo piccolo, anche se per lei sono un minimo sopportabilissimo, ma ella sa che per lui sono una tragedia. Soprattutto il patire di riconoscersi non ancora del tutto virtuosi è il massimo delle virtù, perché non pone limiti alla loro conquista.
Per questo alcuni filosofi cristiani definirono le virtù degli antichi ‹vizi splendidi›, perché ordinati alla felicità o alla propria affermazione. Non è l’orgoglio e la stima altrui il fondamento delle virtù, ma è la virtù il fondamento della stima. In questo senso, e a mo’ d’esempio, se uno ama il suo prossimo, amerà anche il Dio del suo prossimo e, se ama il bene che ha ricevuto, amerà molto di più chi glielo ha donato, e non si fermerà solamente all’utile che il bene procura. In qualche modo egli riesce a far diventare ‹teologali› – ovverosia, rivolte a Dio e da lui motivate – tutte le virtù anche quelle cosiddette naturali, esercitate nel rapporto con le varie realtà.
Le virtù sono soprattutto le leggi che fanno sì che un uomo sia uomo. Come tutte le leggi sono obbliganti, quando sono conosciute e, in questo caso, perché sono spontaneamente conosciute – per così dire quasi istintivamente, anche se alle volte vengono dimenticate o rinnegate.
Questo non significa che esse siano spontaneamente sempre osservate. Esse rappresentano un codice ed un ordinamento connaturale. Purtroppo, come un uomo nasce con due mani, ma ne usa prevalentemente solo una e, alle volte è mancino, ci sono alcuni che in fatto di virtù sono mancini di tutte e due le mani: le virtù sono spontaneamente innate, non sono sempre spontaneamente osservate.
Arrivare poi a dire che se tutti gli uomini fossero virtuosi, la società sarebbe noiosa o del tutto rovinata è il colmo dell’equivoco, perché, per esempio, non è l’amore, ma l’egoismo che frena gli investimenti e pauperizza la ricchezza sotterrando i tesori.
D’altra parte, se la virtù è una legge, non si identifica con un ‹imperativo categorico›, perché non è esclusivamente basata sulla ragione, ma anche e soprattutto sull’affettività e quindi mette in luce la libertà che è propria dell’uomo.
È la libertà che dona alla virtù una sorta di regalità e che fa l’uomo il re dell’universo, come se egli dettasse legge, perché essa è consona con quella dell'intero universo. Sono talmente enormi e varie le capacità di un uomo virtuoso che è impossibile trovarne due uguali: davanti alla stessa difficoltà la supereranno in modo diverso, ma tutte e due solo per mezzo della virtù. Sono talmente ricche le disposizioni che riflettono le virtù che non finiremo mai di rimanerne sorpresi. Il mondo delle persone virtuose supera qualsiasi immaginazione, non si riuscirà mai a conoscerne tutte le varie concretizzazioni e la loro comunicazione: una legione di persone straordinarie senza numero lo stanno a dimostrare esaurientemente.
Le virtù come riflessione
La virtù consiste in un moto spontaneo dello spirito, che poi viene quasi sempre manifestato con un segno sensibile. Bisogna aggiungere, che le virtù hanno una componente attiva ed una riflessa: con esse il soggetto agisce e riceve una risposta di rimando automatica. Si tratta di una riflessione diversa da quella intellettuale, perché è fondata sulla analogia reciproca e non sulla considerazione deduttiva.
La componente riflessa della benevolenza è manifestata dalla giustizia: per suo mezzo il soggetto ama non solamente il ‹proprio› dell’oggetto, ma anche il suo personale, perché non lo altera, ma lo promuove – aumenta le proprie capacità – anche quando sembra sacrificarlo a vantaggio del suo interlocutore. Il segno sensibile tipico della benevolenza è il dono dei beni che essa produce.
Il segno della fiducia è l’ospitalità, che va dalla informazione spicciola fino al vivere insieme; la componente riflessa è la prudenza.
La speranza produce bellezza manifestata da un segno che non è il dono della benevolenza o la comunicazione della fiducia, ma consiste nel pegno, che va da una promessa fino alle più provate assicurazioni. La speranza è la virtù che produce quei pareri che permettono le correzioni spicciole, che sono belli perché sono umili, ma anche le grandi profezie, battistrada dei tempi futuri, affascinanti e splendidi come le opere d’arte. È questo un dono adatto e adeguato, corrispondente, in una parola, a qualcosa di bello ed armonioso, come sono le cose alle quali si è affezionati. La speranza è una virtù riflessa per eccellenza: non si spera in chi non dona speranza, perché è fondata sull’impegno e sulla rassicurazione.
Tutte le virtù non sono mai soggettive ma personali; esistono allo stato nascente in ogni singolo uomo, o meglio, non ‹esistono› – non hanno una storia – e nemmeno ‹sono› – non possiedono una memoria-progetto – ma animano o, in altre parole, creano una atmosfera che è un clima ed un ambiente che permette la reciprocità.
Con le virtù l’uomo è predisposto alla partecipazione, rappresentano quel qualcosa di divino che ha ricevuto con la creazione: le virtù non si spiegano, si respirano, o meglio, sono il respiro dello spirito; mentre la ragione si esprime con i pensieri detti ed agiti e mentre l’essere si mostra con le caratteristiche-capacità, lo spirito si rivela con le virtù nell’obbedienza, nell’aiuto concreto e nella sublimità dell’arte, per questo quando lo spirito ‹parla› dice lode, perché ama, assicurazione perché è fiducioso e armonia perché è carico di speranza.
Le virtù sono leggi oppure facoltà?
L’amore ha la caratteristica di far diventare obbligatorio il servizio. In questo senso si può affermare che le virtù sono leggi e non facoltà senza l’obbligo di essere adempiute. Tuttavia per ottenere una risposta più convincente a questo problema cerchiamo maggiori spiegazioni cominciando dal confronto delle virtù non tanto con i vizi conclamati, ma di esse con la loro carenza.
Nel confrontare una fiducia perfetta con una carente ci si accorge subito quale delle due sia preferibile al punto di essere obbligante. La fiducia consiste nella prudenza e nella semplicità. La prudenza vuole che ci si debba astenere dal chiedere agli altri quello che si dovrebbe pretendere da sé. È ovvio che non aver fiducia in se stessi non è un buon motivo per aver fiducia negli altri: l’irrazionalità di questa sfiducia in se stessi ci obbliga necessariamente ad evitarla. Se non si è prudenti si può indurre l’altro a commettere una ingiustizia, e mancare di prestare il soccorso necessario contraddice perfino le stesse leggi civili. La semplicità significa evitare quei controlli che sono un impedimento, come se si supponesse che tutti siano inadempienti. In pratica, la semplicità non serve a limitare, ma a promuovere e, proprio perché semplifica, corregge senza pesare, tanto che arriva a chiedere prove, non per condannare, ma eventualmente per correggere e correggersi vicendevolmente.
La virtù della fiducia è introduttiva nei riguardi della benevolenza: per via della prima diventa logica la seconda.
La virtù della benevolenza consiste nella giustizia, sia nel riconoscimento del ‹proprio› altrui, sia nell’obbligo di non impedirne lo sviluppo, ma un progresso non si può solamente permetterlo, lo si deve favorire e, quindi, è obbligante, tanto che la stessa magnanimità, che è la seconda caratteristica essenziale di questa virtù, è doverosa più di una cosiddetta giustizia legalista, tanto è vero che, anche in questo caso, la mancanza di soccorso è perseguita perfino dal codice civile. A questo riguardo, bisogna aggiungere che il proprio di ogni realtà è un bene per la realtà stessa e lo è per le altre realtà con le quali essa viene in rapporto, per questo, non essere magnanimi significa impedire il bene degli altri e delle altre cose, come se non fosse un bene di uguale valore di quanto lo sia per il soggetto. Impedire il bene e fare il male sono la stessa cosa e questo è sempre proibito.
E, proprio perché si ha fiducia e benevolenza, non si può fare a meno della speranza. La speranza consiste nell’investimento in un progetto e nella prevenzione di ciò che lo può impedire: se la speranza non fosse obbligatoria, l’uomo non potrebbe essere il ‹fabbro della sua fortuna› ed il socio di quella altrui.
Da tutte queste descrizioni appare evidente che le virtù non rappresentano solamente una indicazione per la scelta di un dato comportamento, ma una legge ed una misura delle relazioni umane: se è meglio essere semplici, magnanimi e impegnati diventa obbligatorio esserlo e, se è meno bene il contrario, diventa un male il sceglierlo e quindi richiede di essere proibito. Le caratteristiche dell’obbligo e, quindi delle leggi, consiste nell’aprire alle possibilità una strada e nel renderla sicura sulla base di una definizione certa ed inequivocabile: la prudenza, la giustizia e la prevenzione sono delle misure ovvie e necessarie e non opinabili o solamente desiderabili e quindi sono obbliganti ed indispensabili come sono tutte le leggi.
Le virtù, in pratica, sono il fondamento dell’etica, ovverosia della legge morale, esse sono la norma costituzionale della morale stessa.
Si potrebbe dire che le leggi fissano un limite minimo e non indicano un massimo da raggiungere, a differenza delle virtù ma, a questo proposito, bisogna distinguere tra la legge come espressione di autorità e la legislazione contingente che la indica e la promuove, ovverosia la differenza che esiste tra obbligo e applicazione di provvedimenti giudiziari. Se non si tiene conto di questi limiti pratici si rischia di processare le intenzioni e, invece, non si può condannare alcuno senza prove.
Le virtù sono come la porta di casa che serve per chiudere e per aprire, per conservare l’intimità e per spalancare il progresso (il cammino) sulla strada della vita, perché sono rivolte nello stesso tempo all’essere ed all’esistere dell’uomo. Per via di questo primo aspetto sono state anche chiamate ‹virtù negative› e, perché aprono le porte di casa ‹virtù positive›.
Con il conservare proteggono l’unità dell’uomo come essere partecipe, mentre con il ‹progresso› consentono la distinzione come responsabile nei riguardi della realtà esterna del suo esistere, perché sono la legge di questa unità e prescrivono quindi le norme fondamentali dei comportamenti umani; in pratica esse definiscono la morale.
Io intendo qui le 1) virtù infuse, che generano con l’esercizio 2) le virtù acquisite da cui dipende 3. il comportamento morale. Per esempio la virtù infusa della fiducia ha un aspetto rivolto all’essere dell’oggetto conosciuto – anche di quel oggetto che è lo stesso soggetto che si ferma a considerare se stesso nella riflessione, – che consiste nella virtù della semplicità ed una interfaccia rivolta all’esistere che è la prudenza. Il primo aspetto prescrive una morale basata sull’obbedienza ed il secondo sulla assertività.
Virtù e ragione
Perché gli animali non ragionano?
Gli animali non ragionano perché, nello stesso tempo, non hanno le virtù. Non perché sono del tutto privi di ragione, ma perché non ne hanno una sufficiente per l’esercizio delle virtù che essi d’altronde non hanno. In pratica perché non sono liberi.
Essi hanno piuttosto una costituzione adatta ad una vita strettamente determinata, per cui anche se avessero la ragione non la userebbero, infatti rispondono sempre in modo uguale a stimoli uguali.
L’uomo invece reagisce sia con le virtù per effettuare le scelte, sia con la ragione per spiegarle ed avvalorarle. Per esempio, senza la benevolenza non si può scegliere il bene-voluto, ma quel bene promosso dalle inclinazioni naturali o, peggio, determinato dalle necessità materiali. In questo senso la ragione può solamente concorrere con lo spirito nel stabilire il modo e l’effettività razionale della scelta nei vari tempi e nelle diverse occasioni, ma la scelta stessa dipende soprattutto dalle virtù.
Non ci sono spiegazioni che rendono conto della diversità dell’uomo dall’animale, ma dati di fatto, perché l'universo non è opera dell’uomo e quindi non dipende dalla sua determinazione, né può essere spiegata dalla sua ragione, ma è comprensibile per mezzo delle virtù, aderendo alla realtà ed ai progetti di chi l’ha creata egli può volere ciò che ha ricevuto. In questo modo, può partecipare al perché dell’esistenza della realtà e, quindi, spiegarla entro certi limiti e comprendere, per quanto possibile, l’ordine che la regge.
Le virtù e la dignità dell’uomo
Il contrario di dignità è indegnità.
Le virtù, come opere dello spirito dell’uomo, valorizzano le dignità in particolare dei propri simili e in generale di ogni realtà. Al contrario la mancanza di virtù, per esempio i vizi, sviliscono ed impoveriscono le altrui dignità e riducono ogni realtà, compreso l’interlocutore, a diventare un oggetto che rappresenta un utile commerciabile. L’esempio tipico è quello dello schiavo e della prostituta, ma alle volte lo si trova persino nel comune salariato, sia nel caso che ha venduto il suo lavoro, sia quando è stato valutato solamente per quel che deve essere pagato. Il riconoscimento delle dignità, invece, presuppone che le realtà siano un dono impagabile, senza questo riconoscimento, si considera qualsiasi cosa indegna di per sé e solamente rispondente ad un utile, tralasciando tutte quelle altre ricchezze che la realtà offre e che il soggetto non vuole né conoscere né riconoscere. In pratica senza le virtù il mondo diventa povero e vile ed i rapporti umani diventano brutti e meschini.
Alle volte si sente dire che noi non abbiamo a disposizione tutti quei beni che sarebbero necessari per soddisfare le esigenze di ogni uomo, mentre si dovrebbe prima confessare che noi non conosciamo nemmeno tutto quello che è a nostra disposizione per capire quel che ci serve e, ancora, che non sappiamo nemmeno quel che ci può veramente servire per soddisfare le nostre necessità. Alle volte si pensa di rimediare alla povertà mondiale con un’equa distribuzione e invece non ci si accorge nemmeno che non si conosce del tutto quello che si dovrebbe distribuire.
Tutto questo perché quando mancano le virtù manca la liberalità che è sempre generosa e coraggiosa, mentre prende piede la necessità che è sempre meschina e vile.
Le virtù ci impediscono di essere miserabili e vigliacchi.
La benevolenza è reciproca, perché il dono chiama dono, la speranza è sicura perché offre un pegno, e la fiducia è ferma persino quando è rappresentata solamente da una quota azionaria. Dono, pegno e quota azionaria sono la materia minima e sensibile delle virtù dello spirito – che sono sperimentate, ma non empiricamente, solo con i sentimenti della coscienza e non solo con i sensi della ragione.
I surrogati delle virtù
L’uomo non può fare a meno delle virtù, come non può camminare senza gambe, così non può conoscere e vivere senza di esse. Quando mancano le gambe si sostituiscono con le stampelle, quando mancano le virtù con dei surrogati, ma mentre le virtù producono unità e quindi anche una conoscenza obiettiva, i loro surrogati permettono solo una conoscenza soggettiva, un po’ come le stampelle che consentono solamente di zoppicare. Se al posto della fede regna la convinzione, al posto della speranza la previsione e al posto della benevolenza la compassione o il reciproco obbligo, allora è possibile solo un rapporto costruito artificialmente in base a delle necessità e non secondo la dignità dell’uomo. Senza le virtù lo stesso rapporto sociale diventa la conseguenza di un contratto estemporaneo, sempre da riaggiustare e mai obiettivo. Accade un po’ come nella storia degli Ebrei riferita nella bibbia (1 Samuele 8, 1 ss) che vogliono sostituire all’autorità di Dio quella di un re e chiedono a Samuele che ne scelga uno tra loro. Evidentemente può essere necessario un re, ma non in sostituzione delle leggi espresse dalle virtù dell’uomo: come è necessaria la sensibilità per conoscere le cose, così può essere necessario questo o quell’altro tipo di autorità pratica, ma solamente per rendere pubblico e non per nascondere il dono dello spirito, che rappresenta quasi una seconda natura aggiunta. È anche la storia attuale della formulazione di una costituzione europea che, nel caso si dimenticasse di Dio, rinuncia ad un potere obiettivo che assicuri a tutti una libertà per natura, per spirito e per ragione, che non si basa solamente su una sovrastruttura sociale di tipo contrattuale.
Virtù attiva e passiva
Con il termine di ‹benevolenza› noi indichiamo due cose: 1) riconoscere il bene dell’altro, 2) volere il bene dell’altro. Si tratta di un ‹sentimento›, per così dire, passivo, quando consiste in un accogliere il bene esterno e di una ‹volontà›altrui, mentre è, per così dire attivo quando consiste nel donare il proprio bene. Altrettanto si può dire della speranza e della fiducia.
Sembrerebbe quindi logico aspettarsi che l’armonia tra queste virtù attive e passive possa costituire la virtù dell’unità, purtroppo tuttavia i sentimenti e la volontà sono talvolta appesantiti dal soggettivismo e dall’oggettivismo, infatti, perché sono propri dell’una e dell’altra delle realtà in rapporto, non sempre sono l’espressione dell’‹uno›, ma il risultato di un accordo particolare, non ancora unito con l’‹universale› e quindi non ancora espressione dell’unità e dell’‹Uno›.
L’accordo è una premessa necessaria al conseguimento dell’unità, ma di per sé non è ancora unità perfetta e totale, che richiede e presuppone una unità con l’Uno di tutte le unità.
Le virtù arcchiscono
La caratteristica tipica delle virtù è che hanno la capacità di donare la pace alla coscienza. Mentre la ragione spiega e insegna, la coscienza ammonisce e conforta.
Le virtù non producono, se non secondariamente, un aumento di utile per il soggetto che le persegue ma, primariamente, un arricchimento di essere e di esistere.
La speranza non dà la certezza di un guadagno, ma la conferma della fortezza dello spirito. La benevolenza non assicura solamente una maggiore entrata di proventi, ma la solidità del proprio che è la ricchezza della natura dell’essere. La fede non accresce esclusivamente la quantità di nozioni, ma consolida le conoscenze e moltiplica quelle altre conoscenze che chiamiamo ‹quasi-enti› (nel senso di Bekanntschaft o acquaintance).
Tutto questo perché le virtù aumentano il sé e le realtà in seno al loro rapporto, soprattutto quella Realtà che ha infuso le virtù nello spirito dell’uomo.
Le virtù permettono la conoscenza logica
Kant asserisce nella sua critica del giudizio che quello che io non capisco, cioè che non rappresenta per me uno scopo, io lo posso sempre accettare per la forma, ovverosia perché è bello.
Il bello avrebbe così la funzione di spiegare l’incomprensibile e questo è vero se si ammette che il bello si accompagna al buono, o meglio, che, nell’atto di cogliere la sua bellezza, il soggetto la considera con benevolenza. È, infatti, la benevolenza che spiega il bello inspiegabile. In pratica, sono le virtù del soggetto che scoprono le dignità dell’oggetto e comprendono in qualche modo il suo fine,senza averlo capito del tutto. Il soggetto che non rifiuta l’oggetto, anche solo perché è bello, è già sulla strada per riconoscere il suo fine e già implicitamente ammette che esso è un bene.
Virtù infuse e virtù esercitate
Le virtù indirizzano l’uomo alla conoscenza ed alla acquisizione del bene, per cui aprono gli orizzonti e, nello stesso tempo, precisano – e non limitano – la strada per raggiungerli, per questo hanno un aspetto positivo ed un altro, per così dire, attivo: il primo aspetto è proprio delle virtù infuse in sé, il secondo del loro esercizio. Il primo riguarda ancora il potere della volontà, il secondo la volontà del potere o, con un’altra definizione, essi esprimono la volontà volente e la volontà voluta.
La fiducia, che è talmente infusa che nel bambino sembra quasi istintiva, sfocia nella purezza che prepara il giovanetto ad una benevolenza priva di egoismo e quindi capace di grandi ideali e di costosi investimenti, ovverosia, talmente pura da essere povera. La povertà a sua volta diventa modestia o umiltà che è propria della persona adulta che ha imparato i suoi limiti, ma non ha rinunciato agli impegni dettati dalla virtù della speranza.
L’opposto capita con i vizi. La sfiducia cerca il profitto e l’edonismo, la soddisfazione e il piacere richiedono l’acquisizione sempre insufficiente dei beni di immediato consumo, senza preoccuparsi di quelli necessari all’investimento di grandi imprese ed infine la ricchezza vuole le consolazioni ed evita tutto ciò che è servizio ed impegno.
Le ‹virtù pratiche› derivate dall’esercizio delle virtù infuse
Le virtù infuse sono corredate da altre virtù cosiddette pratiche, tra loro sono preminenti la fortezza, la giustizia e la valorizzazione che non è solo riconoscimento e gratitudine, ma impegno e responsabilità partecipati.
La fortezza
Bisogna amare il bene ed odiare il male. In pratica il solo amore non è sufficiente è necessario anche l’odio, perché se manca l’uno è insufficiente anche l’altro. Questa affermazione potrebbe mettere in discussione quella predisposizione positiva nei riguardi della conoscenza, che io ho chiamato pre-cognizione attentiva, come se non si dovesse sempre essere ben disposti nei riguardi della realtà, perché non sempre essa è un bene e, molte volte invece sarebbe un male. A questo proposito bisogna chiarire cosa si vuole conoscere. Se la conoscenza mira al bene lo si potrà anche acquisire, mentre se si lascia deviare dal fine preposto per fermarsi, per esempio, in uno stato di rabbia e di ribellione a costruire propositi di vendetta, forse odierà il male, ma di certo ha già dimenticato il bene. Una precognizione funzionale è sempre positiva perché primariamente sceglie, ovverosia elegge, che significa ama, dove anche l’odio è amore e non sconsideratezza e aggressione. La persona che ama il bene, quando si sente insidiata o danneggiata non si ferma in una pretesa di ottenere un risarcimento, quasi un conguaglio che corrisponde ad un desiderio di supremazia, nei riguardi di chi ha offeso, perché preferisce promuovere il bene correggendo l'interlocutore al punto di dimenticare se stessa. Il ‹bene› ontologico equivale alla obiettività nel campo della conoscenza e, quindi, all’acquisizione della ‹verità›, mentre il desiderio di rivalsa equivale ad una affermazione di se stessi, anche nei riguardi del bene che viene posposto ai propri diritti: un tale atteggiamento pecca di soggettivismo che è sempre mancanza di obiettività e, quindi, di verità. In conclusione bisogna ribadire che la predisposizione necessaria alla conoscenza consiste nell’esercizio di tutte le virtù, anche della fortezza nei riguardi del male, che non è la rabbia e la rivolta che, a loro volta, non sono virtù.
Del resto anche il male è utile perché aiuta a distinguere il bene che si riceve dalle intenzioni di chi lo dona, in pratica a comprendere la differenza tra bene e utile. Il bene nasce sulle radici della benevolenza, ovverosia nel terreno dello spirito e nel campo delle virtù, l’utile invece può benissimo coesistere anche senza le virtù, non ha radici e muore appena nato, perché è un ‹dare per avere› da parte di un uomo senza spirito, come se fosse un individuo a metà, che è meno uomo e, quindi, meno affidabile e meno sicuro.
L’uomo forte dona sicurezza perché ha annullato i suoi dubbi nella fiducia e perché si è ordinato nella semplicità. È la fiducia che dona all’amore il calore e la luce di un sole senza tramonto.
Giustizia naturale e convenzionale
La giustizia è una delle virtù derivate dalla benevolenza e riguarda il ‹proprio› di chi la vive e quello delle realtà con le quali viene in rapporto. Trattandosi di una virtù mira sempre all’unità e si può comprendere solo in questo ambito, per cui, pur essendo una virtù dei singoli non è mai una giustizia puramente attributiva, ma è sempre nello stesso tempo distributiva. In altre parole, quel che spetta di diritto al singolo, ha valore solo nell’ambito della partecipazione e, quindi, spetta di dovere anche all’altro uguale a sé.
Una giustizia non per natura, ma per convenzione, si basa su uno psichismo concettuale, quindi, ha un valore propedeutico ed euristico, in pratica assomiglia ad una strada per arrivare alla meta, senza sapere se si potrà raggiungerla e, quindi, senza essere certi che convenga perseguirla. Anche chi esercita la virtù è sempre in cammino e non è mai arrivato, ma ha un segnavia a sua disposizione per non sbagliare strada che è la stessa virtù che egli vive.
Riconoscenza
Quel che è la fortezza per la fiducia e la giustizia per la benevolenza, così è la valorizzazione per la speranza.
C’è una espressione attualmente in voga che raccomanda pressappoco di lavorare e di pensare non dimenticando la ‹fantasia›, al fine di raggiungere migliori risultati nell’impegno quotidiano della vita. Ovviamente di per sé le fantasie sono immaginarie come i sogni e non dipendono dalle ragioni; tuttavia le ragioni se non sono mosse dalle virtù rischiano di tarpare l’impegno necessario per vivere la speranza. Il vero sogno, o meglio, i sogni quando sono speranza, poggiano sulla valorizzazione che presume l’impegno reciproco. Senza impegno non si lavora insieme e non ci si accorge dei doni del nostro simile e della ricchezza della natura, niente è gratificante e il mondo diventa piatto e senza colore.
De-materializzazione dell’esistere
Uno degli effetti, e non il meno importante, dell’esercizio delle virtù è quello di rendere più spirituale l’esistere e non poteva essere altrimenti, perché esse sono proprie dello spirito dell’uomo.
La speranza ha la caratteristica di donare una sua bellezza alla modestia ed al valore di un esistere impegnato; il suo esercizio toglie alla valorizzazione il peso del superfluo e dei fronzoli materiali, fino a renderla luminosa, al punto che dona al sacrificio un suo splendore attraente: senza la speranza la fatica e l’impegno rimarrebbero brutti e, alle volte, opprimenti.
La fiducia ha un effetto diverso: poiché il suo esercizio si manifesta nell’obbedienza, questa virtù toglie il peso dell’oscurità, perché come chi compie il suo dovere lo capisce meglio, così chi obbedisce all’autorità ‹vede› più facilmente le intenzioni del comando, svelando, così, la verità delle intenzioni e dei rapporti.
La virtù della benevolenza svuota la coscienza dell’uomo dal peso di un bene imposto e rende leggera e amabile l’offerta, anche quando non è accettata: la persona che la vive non è mai annoiata, è sempre contenta, persino nelle avversità e nelle incomprensioni.
Si tratta quindi di una de-materializzazione che non annulla la materia, ma che la rende non ‹necessaria›, un po’, passi il paragone, come lo zucchero vanigliato sulle torte, che di per sé non è indispensabile perché sono già dolci, ma che le rende più gustose.
Le virtù hanno questo potere: di rendere la vita – l’esistere dell’uomo – gustosa e non solamente felice.
Il valore delle virtù
L’amore purifica dal possesso,
la speranza dall’erotismo e
la fede dalla fabulazione.
A questo proposito si può mettere in dubbio il valore delle virtù con quell’argomento che va sotto il nome di ‹secondi fini›. In pratica si dice che se l’uomo ama è solamente perché ha di mra un utile, anche se egli non si accorge di essere motivato da questa ragione e sospinto da una inclinazione naturale e invece s’immagina di essere mosso dai sentimenti affettivi dello spirito. È ovvio che se si nega questo tipo di affettività in qualche modo bisogna trovare un’altra ‹casa› per i sentimenti diversa dalla coscienza dello spirito e allora li si trasferisce nella dimora della ragione o della natura; tuttavia anche se i sentimenti fossero simili ai motivi logici non per questo si deve ridurre la ragione allo stadio della formulazione dei concetti non ancora purificata dall’utilitarismo. Di fatto, invece, anche con una razionalità limitata ai concetti, proprio perché non mancano le virtù, è possibile per l’uomo la formulazione degli ideali anche se razionalmente è ancora difficile rendersene conto al punto di spiegare la loro ‹idealità›.
Sono le virtù che purificano la ragione dai secondi fini, infatti, a lungo andare codesti secondi fini non reggono nemmeno intellettualmente, anzi provocano una ribellione spontanea, come sono spontanee le stesse virtù che possono essere non riconosciute ma non soppresse. Chi ama per ‹avere›, di fatto finge di amare, ma è mosso dall’egoismo ma, così facendo, o prima o poi, si tradisce e, se di conseguenza non è evitato dai suoi interlocutori, viene messo da parte come un estraneo, alienato in una società di alienati. Nessuno vuol avere un rapporto con chi non è amabile perché non ama: meglio un nemico piuttosto di un finto amico. Può darsi che in una comune banda di ladri, gli adepti si sentano legati per l’utile che la loro coesistenza promette, ma il mondo degli uomini è una banda di ladri? Quando uno sposo ritorna a casa, rientra in una banda o in una famiglia? Anche se entrasse nel covo di una banda di ladri basta l’amore della sposa per convertirlo.
Le virtù in particolare
Le virtù infuse sono tutte equivalenti, non ce n’è una più grande dell’altra. In questo senso si può dire che ciascuna è la più grande possibile. Anche la fede può essere considerata come la più grande delle virtù e lo si vede proprio facendo il paragone con la benevolenza che è stata nominata regina delle virtù. Infatti, come l’amore produce opere di bene, la fede produce obbedienza. Chi obbedisce ha fiducia e dona fiducia, al punto di assicurare l’unità, quasi più di quanto faccia la virtù dell’amare che tuttavia è ordinata completamente all’unità. Per un altro verso, la virtù più grande è anche la speranza, perché costruisce l’unità dove non c’è ancora, come se essa potesse creare dal nulla il bene e l’unità.
In effetti, ogni virtù infusa è una totalità e tutte e tre si richiamano a vicenda, tuttavia vale la pena di descriverle separatamente per conoscerle meglio.
La virtù della benevolenza
Cos’è l’amore?
È il voler bene. È la virtù più abituale e nello stesso tempo la più strapazzata.
Per comprendere in che cosa consiste descriviamo un comune atto di amore.
Un bambino dopo essere stato a lungo sui banchi della scuola torna a casa con un appetito che rasenta la fame. Torna perché si aspetta di essere rifocillato, nel caldo di una cucina domestica, davanti ad una tavola imbandita, un po’ con la furia del lupo da tempo a digiuno e, invece, la mamma lo accoglie con un bacio e poi, ma solo dopo, con il piatto di una povera minestra semplicemente perché non c’è altro da mangiare. Se il bambino valuta il cibo come se fosse il miglior piatto che abbia mai gustato solo per via della fame, probabilmente non vive l’amore e non riconosce quello della mamma, mentre, se lo guarda con ammirazione perché è stato preparato apposta per lui, allora comincia a capire anche razionalmente cosa sia l’amore, anzi perfino se non ci fosse qualcosa sulla tavola e nemmeno del pane secco in credenza, non tralascerebbe di abbracciare la madre per ricambiare il bacio da lei ricevuto.
L’amore è la virtù unitiva per eccellenza. Perfino nei propri riguardi, senza di essa, l’uomo entra in confusione, maledice il giorno in cui è nato e vorrebbe morire. Senza amore muore ogni comunicazione e ogni compartecipazione. È la virtù con la caratteristica preminente di valorizzare la realtà e la persona, in pratica, è quella energia che permette di superare ogni distanza tra gli enti ed ogni mancanza di conoscenza ontologica a loro riguardo.
Istintivamente, ma non spontaneamente, si è portati a valutare una persona per quel che possiede o per quelle sue qualità che sono piacevoli a vedersi, ma in questo caso si tratta di una conoscenza così manchevole e così parziale – così poco imparziale – che, di fatto, rassomiglia ad una acquisizione erronea, non logica, non affettiva e soprattutto non ontologica. L’amore invece toglie la valutazione del ‹possesso› cioè purifica la conoscenza del tentativo di impossessarsi della realtà e di assoggettarla al proprio soggettivismo egoistico. Solo in questo modo, è possibile una comprensione obiettiva ed aperta alla totalità e quindi la costruzione di una razionalità eidetica e la formulazione della conoscenza degli ideali.
Con queste poche parole mi sembra di aver descritto un po’ tutto quel che riguarda l’amore. D’altra parte è una virtù così sublime che di lei non si è mai detto abbastanza.
Amore come ‹causa sui›
Il termine ‹amore› ha due significati. Il primo significa l’amore che ama e il secondo l’amare dell’amore, in pratica il primo è la causa del secondo che consiste nella sua opera.
Le opere dell’amore sono diverse, ma l’amore che le compie è uno solo. Per quel che riguarda le opere c’è un amore di benevolenza, ovverosia rivolto all’esterno di se stesso e un amore riflesso rivolto a se stesso. Sarebbe un controsenso se l’amore che vuol bene non amasse il voler bene, ovverosia prescindesse dall’amor proprio. Purtroppo il termine ‹amor-proprio›, così come il termine di ‹amore di concupiscenza› sono usati quasi come sinonimo di egoismo e non significano abitualmente alcun amore perfetto, per questo quindi, non spiegano l’amore riflesso che non differisce per qualità, né per efficacia, ma per obiettivo e intenzione. In questo senso, se con la ragione si analizza il principio e il processo dell’amore si può mettere in evidenza un unico amore che ama perché è amore, ovverosia che è causa di se stesso anche quando è rivolto all’esterno di sé. Questo unico amore, quando è Assolutamente Perfetto, è Dio stesso, infatti, perché ama non manca di niente, ma se amasse solo se stesso sarebbe un niente perché sarebbe nello stesso tempo causa ed effetto, in pratica sarebbe un amore immobile, ovverosia un amore che non ama. D’altra parte, anzi proprio per questo, il vero amore è tutto amore, ma non è soggetto, né oggetto che devono necessariamente essere fuori di lui e nello stesso tempo, sempre per amore, uno in sé stesso. Ogni altro amore che non sia ‹causa sui› è una partecipazione del suo amore e ogni altra cosa che non sia Dio, se esiste, è per partecipazione di lui che è Amore e non c’è altro Dio fuori di lui.
Violenza - necessità - libertà
«Nell’amore quel che vale è amare» (Chiara Lubich). La citazione può sembrare un’affermazione gratuita o almeno non dimostrabile da un punto di vista logico: non solo si tratterebbe di una ripetizioni con parole diverse, ma perfino con la stessa parola ‹amore›; eppure, se si considera il mondo intero fatto di realtà in rapporto tra loro a formare una unità, ha valore distintamente sia l’unità raggiunta sia il rapporto ordinato ad ottenerla. In altre parole la sentenza afferma che in ordine al raggiungimento dell’amore inteso come unità – che è il compimento dell’amore – è necessaria la virtù dell’amore (benevolenza), dove la benevolenza è la mozione e l’unità il fine.
In questa visuale si spiegano anche le conseguenze così riassunte: in seno all’unità, ciò che non è unito cade da sé, mentre ciò che è unito si completa e si rafforza, infatti, l’unità è opera di Dio che distingue perché crea e unisce perché conserva (santifica). In questo senso se l’anima dell’uomo si perfeziona, anche la materia si completa; l’amore è un dono di Dio partecipato all’uomo nella libertà e donato alle cose nella necessità che, conosciute dall’uomo, acquistano in questo modo una loro possibilità superando la loro inerzia abituale.
Tra necessità e libertà non c’è contraddizione, perché c’è amore. Quando la mamma costringe il bambino a fare qualche cosa non lo coarta, ma lo libera, perché gli dona la possibilità di svilupparsi – lo fa diventare grande – allo stesso modo avviene quando sembra essere più liberale nell’incitarlo ad assumersi una responsabilità. Si tratta sempre di una partecipazione, l’una data, l’altra scelta. Dare la possibilità di scegliere è amore, così come può essere amore l’accettare e, sia nell’accettare, sia nello scegliere, non c’è costrizione. Anche quando l’accettare sembra senza scelta, di fatto, è una scelta tra l’esistere e il morire.
Le virtù, e tra queste particolarmente l’amore, sembrano alle volte sfuggire ai principi della ragione, come se avessero ragioni proprie che, nei loro riguardi, chiamiamo ‹mozioni› – le motivazioni sono ragioni che soccorrono anche le virtù, mentre le mozioni delle virtù non sono razionali, ma affettive, anche se non sono irrazionali.
Con una conoscenza concettuale e con l’esclusione della benevolenza tutto diventa necessario, perfino lo sposarsi e l’avere figli, mentre con la conoscenza degli ideali che suppone l’esercizio delle virtù – tra le quali la benevolenza è regina – tutto diventa libero persino l’assumersi impegni necessari e costrittivi. In pratica il giudizio di necessità avviene a un dato livello della conoscenza, mentre quello di libertà richiede un altro grado di conoscenza; tra i due livelli non c’è confusione, ma il soggetto che fa uso di una conoscenza superiore non rinuncia nel medesimo tempo a quello di una conoscenza di un livello inferiore: egli conserva i due risultati diversi del conoscere diseguale, in modo distinto e usa l’uno o l’altro al momento più opportuno, se non altro, per comunicare e lasciare capire quello che ha conosciuto. Con un interlocutore che possiede solamente una razionalità concettuale non potrà facilmente prospettare delle conoscenze ideali e per spiegarsi si dovrà limitare alla sola esposizione di concetti utilitaristici.
Esiste tuttavia un uomo che fin dalla nascita è senza amore?
Le conoscenze possono essere di un grado diverso e inizialmente più incomplete, ma l’amore se non può esprimersi razionalmente con degli ideali non mancherà di farlo con dei miti o con dei valori. In pratica la mamma dirà al bambino: “Dio è buono, bello e vero“ e il bambino si immaginerà un Dio che è un mito e rischierà di confonderlo con il mito del suo papà, ma il suo amore saprà distinguere in un certo modo anche quello che la ragione non sa ancora chiarire. Del resto, se noi conosciamo idee e perseguiamo ideali abbiamo forse compreso il tutto conoscibile? Anche i nostri ideali sono sempre colorati di mitologia e caricati di opportunità. La conoscenza è un continuo chiarimento e l’affettività esige una perenne purificazione.
Amore a tre
L’amore della mamma per il bambino è di un altro tipo di quello che ella ha per il marito. Il figlio di tutti e due lo avverte ben presto. È questa l’occasione che lo costringe a rivedere il suo amore per la madre, perché si accorge che quello che egli ha per lei è insufficiente e bambinesco se lo paragona a quello del padre. Ovviamente io qui non mi riferisco al cosiddetto amore sessuale, ma alla virtù della benevolenza e della corresponsabilità, infatti, è evidente che la corresponsabilità tra sposi non può essere paragonata a quella incipiente tra la madre e il figlio ancora bambino. In questo modo l’amore della madre nella famiglia diventa un luogo di transizione, nello stesso tempo scuola e insegnamento, per il figlio che si distingue da lei e dal padre, per diventare sempre più concreto, non solo nei loro riguardi come singole persone, ma anche nei riguardi dell’intera famiglia, come società piccola ma completa, in cui egli vive. A questo punto può sembrare che l’amore del figlio sfugga all’intimità della casa, ma la distinzione che egli impara, lo prepara a una maggiore unità. Il bambino aveva ricevuto il latte dalla madre per non separarsi da lei ma, con la crescita, intuisce che questa unione fisica non è necessaria per realizzare l’unità, come non è sempre necessario alla madre stessa il rapporto fisico per rimanere unita al marito.
A questa crescita dell’amore del figlio corrisponde quella dei genitori non solo nei suoi riguardi ma, sempre più, anche tra loro stessi. Il figlio diventa il luogo di transizione, affinché il loro amore si distingua e si purifichi superando la stessa necessità fisica. Il padre e la madre imparano da lui una distinzione e un’unità nuova e, se rifiutassero questa scuola, non sarebbero all’altezza per diventare a loro volta maestri nei riguardi dello stesso figlio. Si tratta di una scuola che, alle volte, mette i genitori in uno stato di desolazione e di quasi morte, talmente penoso da sembrare senza rimedio. In pratica come la morte sancisce quella de-appropriazione al di là della quale nasce un’idealizzazione della persona che vive nella memoria, così la separazione in famiglia, che avviene con la pubertà dei figli, chiama in causa un amore che, per così dire, non può pretendere alcun diritto di proprietà e che, dopo un lavoro psichico faticoso e a volte doloroso, diventa un amore ideale che unifica la famiglia su un piano superiore e più vero.
I genitori che hanno donato la vita al figlio non finiscono di donarla con la comparsa della sua pubertà, e il figlio che li ama, non li ama di meno quando sembra rifiutarsi di corrispondere alle loro cure fisiche.
D’altra parte il figlio non potrebbe superare la pubertà se non capisse la differenza di significato tra sessualità e affetto, e i genitori non potrebbero prepararsi all’anzianità (alla maturità) se non capissero la differenza tra generazionalità e amore genitoriale.
Ovviamente ci sono altre de-appropriazioni più radicali di queste e forse più dolorose, ma anche maggiormente capaci di donare una serenità personale e un’armonia superiore con l’intero universo; tuttavia sono di più difficile comprensione, perché esse stesse sono più misteriose, come se fossero capaci di trasmettere una esperienza di ciò che è il ‹miracolo› nella vita di un uomo che non sembra certo essere abitualmente miracolosa.
La fede
Cos’è la fede?
La fede è una virtù altissima e come tutte le virtù, di una semplicità estrema.
Per comprendere in che cosa consiste descriviamo un comune atto di fiducia.
Un bambino torna a casa dalla scuola e si aspetta di essere ricevuto come se fosse il re della casa, ma la mamma gli chiede invece di essere aiutata. Il bambino non si aspettava una cosa del genere e nemmeno la capisce, ma egli sa che la mamma gli vuol bene e, soprattutto, egli stesso vuol bene alla mamma e, quindi, sebbene egli farebbe diversamente e, ancora, sebbene egli non comprende i motivi della richiesta, obbedisce. La fede è questo atto di obbedienza. Si tratta da parte del bambino di una adesione volontaria e affettuosa ad una mozione non del tutto comprensibile razionalmente e non del tutto motivata da inclinazioni naturali, mossa tuttavia da quei sentimenti che nascono dalla sua unità affettiva e volontaria con la madre. Questa ‹obbedienza-adesione› è la manifestazione pratica e concreta di quella virtù che si chiama ‹fede›.
La fede quindi è:
la certezza dell’uomo a proposito di fatti o di comunicazioni non completamente comprensibili con la sola ragione o non accettabili del tutto per inclinazione naturale, ma fondati sulla mozione dello spirito ‹in ordine a…› il conseguimento dell’unità. La fede quindi è una sorta di sottospecie o, meglio, di precisazione dell’amore ed una manifestazione dell’affettività, della volontà e dei sentimenti dell’uomo.
Le conseguenze di un atto di fede sono incommensurabili, come sempre quel che riguarda le virtù. In primo luogo si tratta di un aumento di conoscenza, perché, per ritornare all’esempio del bambino, obbedendo egli capisce a cosa serve quel che gli è stato richiesto e, in secondo luogo, proprio perché obbedisce impegnandosi, aumenta contemporaneamente anche le sue efficienze naturali come se, con un arricchimento di inclinazioni oltre le proprie che possiede, potesse aumentare la sua stessa natura.
La fede quindi:
1) aumenta la razionalità e
2) permette l’efficienza naturale.
Anche la fede, si direbbe soprattutto questa virtù, è necessaria all’uomo per essere ed esistere come uomo, perché un uomo senza affettività è come un animale materiale con un ordine dipendente e necessitato, in pratica, come chi è privo della facoltà di essere libero nelle sue decisioni.
È ovvio che questa virtù deve essere nello stesso tempo semplice e prudente. Per esempio il bambino poteva chiedere alla mamma i motivi della sua richiesta (prudenza), non per evitare l’obbedienza (semplicità), ma per renderla persino ancorata alla ragione e per non diminuire la fiducia. Per questo, è ancora ovvio che, se la fede sembra senza ragioni, o meglio, non è ancora completamente passata attraverso il filtro della ragione, non per questo è irrazionale. Quel che viene dalla ragione non è la virtù della fede, infatti, le virtù sono spontanee (infuse) e non spiegate, sono esercitate e non esistite, perché non si sviluppano – non si acquistano in modo sempre più completo con lo sviluppo dell’età. Le virtù sono ‹a priori› mentre le ragioni ‹a posteriori›. In pratica lo spirito dell’uomo non è generato dall’esistere, ma procede dall’essere per efficienza e dall’esistere per deduzione. A sua volta l’esistere procede dall’essere per generazione e dallo spirito per induzione. L’essere poi procede dall’esistere sempre per deduzione – che evidenzia le sue caratteristiche, ovverosia rende preciso l’essere – e dallo spirito sempre per induzione.
Fiducia e obbedienza
La virtù della fede esige la pratica dell’obbedienza, a questo proposito motiva la ragione nei riguardi dell’autorità e della libertà. Infatti per obbedire bisogna che qualcuno comandi e, sempre per obbedire, bisogna aver la libertà di disobbedire, al contrario, lo schiavo non aderisce con la volontà ai comandi del padrone, ma usa la volontà per compiere, senza virtù e senza ragione, quel che gli è stato imposto. Da questa prima considerazione elementare risulta ovvio che qualsiasi imposizione non è mai autorevole e non è mai indice di autorità, ma si auto denuncia come una ingiustizia per il solo fatto che è una oppressione. Viene da sé che, se si parla di ingiustizia, si ammette implicitamente che l’autorità si fonda sulla giustizia e, quindi anche il diritto di comandare è valido solamente su questo fondamento. Ora, la giustizia consiste nel riconoscimento del ‹proprio› dell’essere, in pratica, per l’uomo, della sua natura. Lo stesso diritto di comandare ha un fondamento nell’‹Essere› dell’‹essere› dell’uomo, praticamente in chi ha ‹inventato› la sua natura. In questo senso l’autorità dell’uomo è valida solamente come partecipazione a quella di Dio, e solamente nell’ambito di questa partecipazione, ovverosia unicamente come interprete della natura umana. Più precisamente, sia chi comanda, sia chi obbedisce hanno sempre il diritto-dovere di obbedire a Dio; certamente nessuno può arrogarsi il potere di essere superiore sui suoi simili. Anche quando l’uomo obbedisce alle leggi dell’uomo, di per sé, non potrebbe andare contro natura, perché anche chi ha promulgato qualche legge è una creatura di Dio e non può volere se non quello che ha stabilito chi lo creato, ma l’uomo, anche quando comanda a sé ed agli altri, è limitato e non sempre è quello che dovrebbe essere, né così chiaramente rispetta la sua natura. Anche in questo caso è sempre meglio comperare il prodotto originale, al posto di fidarsi delle imitazioni e, a proposito, riconoscere chi è l’Autore del diritto e della autorità e coloro invece che sono copie, più o meno conformi all’originale.
La sfiducia
Le cause di un comportamento errato sono a carico dei deficit di 1) capacità, 2) di avvertenza-conoscenza e 3) di volontà del soggetto.
L’incapacità può essere costituzionale oppure secondaria ad una mancanza di sviluppo cognitivo o di esercizio delle virtù. In ogni caso merita di essere più curata che colpevolizzata. Chi più chi meno è per natura limitato nelle sue prestazioni: bisogna avere il coraggio di accettare una certa incapacità di fondo, non per scusarla, ma per cercarne i rimedi. Purtroppo tra deficit di capacità e abitudine ad usare unicamente le routine, senza cercare di sviluppare possibilità nuove, c’è una certa connessione: più uno è limitato e più facilmente non cerca di aumentare le sue abilità, mentre tutti sarebbero chiamati a migliorarsi con una specie di aggiornamento continuo, almeno quanto sembrano permanenti i difetti abituali. In certi casi è necessario un vero e proprio studio ed un esercizio sempre aggiornato oltre i limiti dell’età scolare, il più delle volte le stesse circostanze della vita sono ottime maestre, se si presta loro attenzione.
Da quanto detto sopra si capisce subito come la costituzione naturale debba essere accompagnata e assistita da quella avvertenza-conoscenza che si basa sulla ragione: se la capacità era legata all’essere del soggetto e dipendeva dalla sua personalità, la ragione è espressione dell’esistere dell’uomo ed è sempre passibile di sviluppo. Un deficit di volontà non dipenderebbe da una mancanza di virtù, anche se non si può dire che ogni uomo le abbia ricevute tutte in sommo grado, piuttosto da una mancanza di capacità e di avvertenza. Infatti, se è con la volontà che si può migliorare sia l’abilità, sia l’avvertenza, è anche vero che nessun motivo poggia su un altro motivo, ma sulla natura e sulle sue ragioni. In pratica, le virtù dello spirito, pur sempre infuse e a priori, sono in un certo senso dipendenti anche dalle capacità costituzionali e dalle ragioni dell’esistere dell’uomo.
Un esempio può chiarire questi assunti e impedire di confondere una mancanza di virtù con una mancanza di capacità fisica di manifestarla. È il caso tipico per quel che riguarda il comportamento del paranoico. Si tratta di una malattia psichica e quindi di un certo esistere limitato. Il paranoico è portato ad essere più sospettoso che prudente, più controllato e complicato che semplice. Quando è spinto dalla sua malattia – dai sentimenti del fisico e non dalle mozioni della virtù – a trattare in modo tutt’altro che semplice rischia di costruire un mondo falso e di coinvolgere il suo interlocutore nella sospettosità, ma proprio per questo un minimo atto di fiducia espresso da una persona con questa malattia denuncia una più grande virtù del suo pur grande deficit fisico. In ogni caso, sia in un soggetto con deficit psichico, sia in una persona normale, le conseguenze della sfiducia producono una mancanza di assertività e di obbedienza. La persona sospettosa non ha avuto l’occasione di esercitare il colloquio e l’esposizione dei pro e dei contro ai fini del raggiungimento di un comportamento congruente: in pratica manca di prudenza, si arrabbia facilmente e non dimentica le offese, anche quelle che egli crede tali, malgrado alle volte siano solo apparenti. Soprattutto non è libero di accettare il parere altrui con semplicità, in pratica non trova facilmente la strada della collaborazione. Per tutti questi motivi non è mai una persona convincente, perché intesse rapporti senza ‹esposizioni›, ma con ‹imposizioni›, più o meno larvate, che provocano il risentimento e la ribellione dell’interlocutore.
Ovviamente è ben diverso il quadro di un comportamento dominato dalla fiducia. La persona che ha fiducia è capace di ispirare fiducia e per questo ottiene facilmente le confidenze del suo interlocutore. A questo punto, per intessere un comportamento adeguato, non basta solamente la fiducia, diventano indispensabili anche le altre virtù: la benevolenza e la speranza. Sono queste le pietre necessarie per la costruzione dell’unità sia affettiva sia esistenziale, al fine di manifestare la natura dell’uomo nella sua perfezione.
Altre volte non sono le caratteristiche costituzionali a rendere difficile l’esercizio della fiducia. L’uomo può trovarsi in un mondo dove tutto sembra parlargli di disordine, scetticismo, istintività, ricerca della pura soddisfazione utilitaristica, eppure egli sente che può prendere tutta un’altra strada, che si chiama ordine, certezza, prudenza… A questo punto egli è portato necessariamente a fare una scelta che gli permette di dirigersi decisamente su quest’ultima strada e lasciare la prima anche se dovesse sembrargli più spaziosa e più comoda.
Qual è la ‹mozione› di questa scelta?
Primariamente, non la ragione, ma la ‹fede›. In altre parole, egli ha scelto per esempio l’ordine al posto del disordine, perché gli dava affidamento più questo di quello, infatti, egli credeva e lo vedeva in se stesso più valido, anche se in un primo tempo non ha considerato del tutto le difficoltà connesse con l’attuazione di un simile programma. Questa fede, che è anche speranza e nello stesso tempo scelta (amore), è la ‹virtù›, che non è un prodotto della ragione, bensì dello spirito: l’uomo decide con tutte le facoltà naturali del suo io e con tutta la riflessione della ragione ciò che l’affettività del suo spirito gli ha indicato mosso da quella energia che si chiama ‹virtù›. Un uomo senza virtù è quasi come il migliore degli animali, ovverosia è un vivente che ragiona fino ad un certo punto e, in qualche punto, meglio degli altri animali, ma non è più un uomo.
Sincerità e fiducia
La mancanza di sincerità è un vero attentato alla fiducia.
Ci sono due tipi di bugie. Le prime sono affermazioni errate, ma non falsità volute, che sono causate da una insufficiente conoscenza, mentre le altre, che sono delle bugie vere e proprie consistono nell’affermare volutamente il falso, perché dipendono da una mancanza di sincerità. In altre parole, quando io mi accosto fiducioso – secondo l’ordine delle virtù dello spirito – alla realtà non sempre raggiungo la conoscenza del vero, ma mai pongo degli ostacoli sulla strada per arrivarvi. Quando invece mi accosto con sospetto e con l’intenzione di trarre solamente un vantaggio, sempre mi precludo la conoscenza della verità, perché il mio rapporto non è paritetico, ma è una mia presunzione di diritti, che fin dal principio non tiene conto di quelli eventuali della realtà che si vorrebbe conoscere. In pratica è come se si volesse riservarsi un giudizio soggettivo che di per sé esclude l’obiettività del rapporto e quindi la certezza della conoscenza.
La prima falsità desta nell’oggetto – in particolare se è il proprio simile – un incentivo alla correzione dell’errore, mentre la falsità dovuta al sospetto ed al soggettivismo genera una reazione da parte dell’oggetto di difesa e di auto conservazione che porta al nascondimento della verità stessa e, nel medesimo tempo, ad un sentimento di ribellione verso la persona che ha mancato di fiducia.
Senza le virtù – senza la speranza, la fiducia e la benevolenza – non esiste ordine nemmeno nel rapporto cognitivo e dove c’è disordine non manca l’ignoranza e la falsità.
La virtù della speranza
Quando si è depressi non si è ancora persa del tutto la speranza, perché la depressione è accompagnata dal dolore che manifesta il desiderio di concretizzarla nella vita pratica. La speranza fa vivere il naufrago nella tempesta e muore solamente dopo che egli è sommerso dai flutti.
Ma cos’è la speranza?
Noi la descriviamo nell’esempio del bambino che la manifesta allo stato naturale.
Immaginiamo una scena che, con un po’ di umorismo, sembra drammatica, ma che può capitare tutti i giorni. La mamma ha un impegno urgente, è in ritardo e, mentre cerca in fretta di arrivare a tempo insieme al suo bambino ad un appuntamento improrogabile, le pare che egli si attarda in cose senza senso. A questo punto sbotta in una escandescenza per richiamare il piccolo al suo dovere. Il rimprovero sembra ovvio, e non è anormale, ma il bambino non lo capisce. Effettivamente non si sa chi dei due sia più in ritardo. A mente fredda si potrebbe persino arguire che la madre riversa sul figlio insieme alle sue preoccupazioni anche la colpa del ritardo. D’altra parte il piccolo potrebbe chiedersi come mai la mamma, che gli vuol bene, lo accusi prima ancora che lei stessa sappia trovare un rimedio. Il rimprovero, tuttavia, serve a tranquillizzare un poco la mamma, ma l’affrettarsi del bambino è la vera soluzione del disastro e che, in un certo senso ‹redime› il male, anche se piccolo, anche se momentaneo. Non si tratta da parte del figlio di accondiscendenza o di ‹ottimismo›, ma di ‹speranza›, infatti egli non cerca scuse ma si impegna subito ‹in ordine a…› salvare il salvabile.
L’impegno è la manifestazione tangibile della virtù della speranza.
La virtù della speranza consiste nel salvare tutto quello che si può salvare. Ma questo non è poco, infatti, si tratta di ridare efficienza alla natura dell’uomo e di rimettere in sesto la sua razionalità effettiva. La mamma ha ritrovato la pace e lei stessa la speranza, il figlio si è sentito utile e insieme gratificato, in casa è ritornata l’unità: tutte le virtù, ma specialmente la speranza aumentano le possibilità della natura e le effettività della ragione, come se, ridonando all’uomo la sua unità, lo rimettessero in salute e gli assicurassero un aumento di energia. In un certo senso, la virtù della speranza sembra maggiormente rivolta a consolidare l’essere dell’uomo, mentre la fede ad aumentare la sua razionalità e la benevolenza a rendere sciolti – liberi, facili, non imposti, non necessitati – i rapporti in ordine all’unità che è l’opera tipica dello spirito dell’uomo.
Lungimiranza e modestia
Le virtù hanno un loro modo di compiere opere.
La pratica della fiducia consiste nell’obbedienza, quella della benevolenza consiste nell’aiuto e nell’assistenza. La pratica della speranza consiste nell’impegno di chi è pronto a pagare di persona.
La persona che spera è ottimista non perché si illude, ma perché sa valorizzare, al punto che non perde niente di ciò che offre la realtà, infatti, apprezza l’utile e sa comunicare il suo ottimismo a chi le sta intorno. Chi spera non gioca alla roulette, ma si impegna sempre; possiede una rara dote: quella di rendere facile ogni lavoro e di saper affrontare qualsiasi problema. In pratica chi spera è sempre lungimirante ed è lungimirante perché modesto. Per questo sembra perfino che non conosce inimicizie e malvolere e, in ogni caso, toglie all’offesa l’odio, qualora fosse stato questo a provocarla. È l’impegno quindi la caratteristica della virtù della speranza che sembra liberare l’uomo da qualsiasi limite e nello stesso tempo che lo rende concreto e modesto. Chi spera non costruisce sull’immaginazione e, per questo, è previdente e umile. Conosce i propri limiti, ma perché si impegna sembra quasi che non abbia limiti, non si vanta, ma sono le stesse sue imprese che gli rendono vanto.
Speranza e unità
Le virtù si capiscono meglio quando si desiderano, perché se ne sente maggiormente la mancanza. La fiducia, per esempio, si capisce dopo aver sperimentato la sfiducia vivendo in un mondo di sospetti e di paranoia, allo stesso modo si intuisce meglio cosa sia la speranza dopo aver patito alle volte la disperazione, altre volte l’illusione. Depressione e illusione richiamano alla mente il comportamento di un malato maniaco.
Come la fiducia comincia con l’apprezzamento delle ricchezze e dei valori, prima materiali e poi morali, ed ha, per così dire un fondamento economico che riguarda la sostanza, così la speranza si mostra come capacità di armonizzare e rendere accettabile la realtà: essa riguarda le forme e le presentazioni, in una parola, la bellezza. Essa porta l’armonia e la pace nella affettività come, facendo un paragone con la ragione, l’arte e la bellezza della esposizione donano alle dimostrazioni logiche una maggior chiarezza ed una più forte convinzione.
Tutte le virtù, singolarmente ed insieme sono ordinate all’unità ed alla distinzione: quando mancasse alla fiducia ed alla benevolenza la speranza, sarebbe impossibile esercitare la virtù dell’unità, perché qualsiasi rapporto diventerebbe troppo arduo e insicuro. Si può avere fiducia nel proprio simile, lo si può colmare di beni, ma se lo si tratta senza attenzione, con indifferenza, come un numero qualsiasi, non si riuscirà mai a tessere con lui un legame che sia soddisfacente e duraturo. La speranza è il vestito dell’unità: promette il contenuto anche quando è indescrivibile, lo rende ‹sentito› ancor prima di essere ‹sperimentato›. Ogni rapporto ha una componente cognitiva ed una affettiva, ma senza la speranza l’umore diventa irritabile e la ragione esagerata, perché la speranza è una misura: essa è calda, ma non brucia, è illuminante, ma non acceca. Non è mai bello ciò che urta e non promette: bellezza e promessa sono quasi sinonimi.
Questo perché ogni rapporto non è mai solamente duale, ma avviene in un determinato contesto. Per esempio, se non ci fosse una società diventa persino assurdo il matrimonio e perfino la stessa amicizia di due persone. La famiglia è la cornice che contiene il quadro del matrimonio e la speranza dà a questa cornice il suo valore e la sua caratteristica. Come la cornice racchiude il quadro, ma non lo limita, bensì lo armonizza con il resto dell’ambiente rendendolo conforme all’arredo complessivo, così la speranza protegge l’intimità del rapporto e, nello stesso tempo, lo presenta all’esterno rendendolo ammirabile, come è del resto la bellezza che nasconde e rivela nello steso tempo.
Non c’è da meravigliarsi di questa specie di ‹miracolo› – la bellezza è ammirabile – perché, se le virtù sono ordinate all’unità, un legame che fosse solamente duale non sarebbe ancora universale e quindi cadrebbe nel particolare: sarebbe un settore di unità, e non una unità completa, in pratica sarebbe più propriamente una divisione di due, pur tra loro d’accordo, che rimane chiuso e li separa dall’insieme.
La speranza è un po’ come il profumo della mensa e le stoviglie della tavola: promettono una buona cucina ancora prima che venga servita, perché se l’ospite ha avuto buon gusto nel preparare la tavola, non ne avrà uno minore nel cuocere le vivande.
Speranza senza incertezze
Ogni uomo con la benevolenza è già unito al suo simile, anche se costui fosse un nemico. Con la fede esclude per principio che possa dividersi dalle realtà che lo circondano. Con la speranza, poi, s’impegna praticamente al raggiungimento dell’unità.
A prima vista sembra che la virtù della speranza non sia necessaria ai fini dell’unità, ma non è così. basta pensare ad un uomo disperato per capire quanto sia importante. ‹Verzweifeln› è la traduzione in tedesco di disperare e sembra indicare un dividersi in due – si può tradurre: fare in due (zwei) –, infatti, chi cade nella disperazione si divide dal contesto in cui vive e si frantuma persino nei riguardi di se stesso, come se avesse l’anima divisa tra ciò che vorrebbe e ciò che non può, perché non vuole. La persona disperata possiede una volontà divisa: vuole, o vorrebbe e, nello stesso tempo, non vuole.
Il contrario della speranza
Il vizio contrario della virtù della speranza consiste nell’amore per l’avventura che può arrivare alla ricerca del rischio senza alcun scopo. Nasce da una mancanza di avvedutezza, che impedisce una cognizione assennata ed una azione impegnativa, con il risultato di una previsione infondata. È facilmente patrimonio di chi ha una pre-cognizione negativa, portata al contrasto ed alla sopraffazione, al posto di usare quella positiva che, a proposito di questa virtù, predispone allo studio ed al lavoro in ordine al conseguimento dell’unità con quella realtà che ha motivato la speranza.
Come la virtù della benevolenza si esprime nell’aiuto che è vero solo se si concretizza nelle cure e, come la fede conduce all’assenso per mezzo dell’obbedienza, così la speranza si riconosce dall’impegno che essa richiede, mentre il vizio contrario si riconosce dalla presunzione infondata e sconsiderata.
L’esercizio della virtù della benevolenza genera la libertà; l’egoismo la necessità.
La fede porta la pace perché mette in moto tutte le forze di chi la vive e consegue un aumento delle sue capacità-possibilità, infatti, alle volte l’obbedienza richiede un aumento di inventiva e di realizzazioni che altrimenti non si sarebbero mai previste; la sfiducia genera lo scetticismo e la malavoglia.
La speranza porta l’armonia: è questa la virtù tipica dell’ordine ed è propria in modo eminente dello spirito dell’uomo. Chi spera non è mai aspro, amaro, è invece saporoso e delicato, sa creare un ambiente; non dona solo la pace, come la persona fiduciosa, ma la gioia, che non è nemmeno la felicità di chi si sente amato, perché la speranza ha un qualcosa di più intimo e soave. Chi non ha la speranza vede solamente ostacoli da abbattere e posizioni da calpestare per emergere ed imporsi e, quando sembra gentile, è ostentato come un imbroglione.
La mania e la volontà
La mania è la malattia del disadattamento per eccellenza. Non riguarda tanto i rapporti, ma il contesto in cui essi avvengono. Il maniaco non sa armonizzare con la società e con la natura e si estranea da ogni contesto, costruendone uno artificiale dove egli non può vivere o, in altre parole, dove egli non può combinare nessun rapporto. Il maniaco non può impegnarsi perché vive in un mondo che è falso e che egli crede vero, proprio perché manca di quelle certezze che comunemente meritano il nome di speranza. La mania è una infermità e non dipende quindi dall’assenso del paziente, ma anche una persona sana può scegliere la malattia al posto della salute, forse in un primo tempo senza quasi avvedersene e per cose da poco e, in questo caso, non si tratta di malattia, ma di cattiva volontà. Forse un modo per differenziare la malattia dalla cattiva volontà in questo campo è quello di guardare ai risultai che ne vengono: il malato è un disadattato, il mal-volente è cattivo: non è un individuo senza speranza, ma uno che ha una speranza cattiva che lo porta alla disperazione, infatti, egli sogna un mondo che egli crede il migliore possibile, ma che è senza libertà e senza amore. Con questo non si vuole affermare che tutte le ‹cattiverie› siano colpevoli; alle volte più di una scelta voluta da chi le compie dipendono dalle condizioni negative imposte dalle circostanze. Bisogna sempre distinguere tra malattia, malvagità e colpa.
La mancanza di speranza assomiglia un poco anche al disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, pur tenendo presente che in questo caso ci troviamo a che fare con una malattia e non con un malvolere dello spirito.
Le persone che hanno poca speranza sono sovente preoccupate; mentre chi non ama non è generoso, chi non spera non è indulgente nemmeno con se stesso – l’indulgenza non la si deve confondere con la tolleranza. Come chi ha fiducia obbedisce e chi ama benefica, chi spera sa rimediare perché non condanna il malfattore e vede sempre una possibilità dove sembra esservi solamente una incapacità.
Arte - estetica - speranza
Un altro argomento, a mio parere, strettamente connesso con le virtù è quello che va sotto il nome di estetica.
L'estetica consiste nella razionalizzazione del bello, ovverosia studia come formulare ci?o che è bello per poterlo ripetere e per spiegarlo.
Il bello
La bellezza è la manifestazione più evidente della virtù della speranza. Come la bellezza architettonica dilata gli ambienti di una dimora e toglie ad essi la sensazione di chiuso tra quattro pareti, così la speranza dona alla coscienza una sua armonia particolare che la rende attraente come se non avesse limiti.
È difficile definire ‹il bello›, ma il suo significato diventa più chiaro per la ragione se lo si considera nell’ambito delle virtù. Io vorrei qui passare in rivista un po’ tutte le virtù infuse con speciale riferimento all’estetica.
Ora, se si considera la fede non si può asserire che principalmente sia bella, ma rassicurante; altrettanto la carità non è bella, ma buona. Ebbene, la speranza è bella. Per capire il bello bisogna vivere la speranza.
Questa istanza non è nemmeno tanto semplice e, come la fede alle volte può essere disprezzata e la carità fraintesa, così la speranza è la virtù dimenticata per eccellenza, al punto che non sembra nemmeno una virtù, ma solamente una supposizione senza prove e, invece, la speranza è provata dalla bellezza che sembra indefinibile, eppure è sempre necessaria per qualsiasi promessa.
Tutte le virtù hanno questo di caratteristico che esprimono una tensione all’unità. In questo senso, la fede non imbroglia, ma rassicura e consolida i rapporti, la carità non turba, ma commuove. La speranza non confonde, ma innalza e, a questo scopo, si incarica del bello inteso come sublime. Le virtù nel loro insieme portano all’unità e quindi alla pace, ma la pace della speranza si chiama armonia, come quella dell’amore si chiama concordia e quella della fede amicizia.
Tutte le virtù posseggono una energia che le anima e che muove il volere e l’affettività, perché sono proprie dello spirito. La fede è pronta fino all’obbedienza che di per sé è senza condizioni, ma che ovviamente non può essere usata per imbrogliare, infatti, non può essere sostituita dalla complicità. L’amore motiva il dare che arriva al dono del bene, che non consiste mai nell’obbligare, al contrario nel rendere liberi, tanto è vero che non può essere confuso con il compiacimento e l’utile. La speranza si esprime nell’arte che non è mai artefatta, perché non nasconde e non inganna, ma non è immodesta e impudente, per questo non può essere confusa o sostituita dal gusto o dalla sensibilità del piacere. È vero che la fede vince, ma più propriamente avvince perché è provata, l’amore lega, anzi compone perché è sacrificio, così la speranza non è spiacevole e non è disgustosa, ma è bella perché puro diletto che perdura, e non soddisfazione che svanisce insieme a quello che si consuma nell’atto di provocarla; in questo senso, l’arte è stata definita come un appagamento disinteressato
In pratica, la fede si manifesta nella obbedienza e per questo diciamo che rassicura perché è forte. La carità è vera se è bene-facente tanto che la riconosciamo ricca ed amabile. Così la speranza non illude, perché si esprime nell’arte che costa tanto impegno e tanta lungimiranza, quanto mancanza di ambizioni: la bellezza è lo splendore della speranza.
Ho così passato in rassegna un po’ tutte le caratteristiche del bello: il bello promette, sublima, dona armonia, puro diletto, splendore; tenendo presente queste note è più facile fermarsi con la nostra considerazione sul problema dell’estetica.
Estetica
Il significato e la definizione de ‹il bello› ci costringono a riconsiderare le virtù e lo spirito delle virtù. Infatti, se il bello è soprattutto la manifestazione della realtà ‹vista› con quelle caratteristiche che ce la fanno apparire ideale e se l’idealità è conoscibile ‹in ordine a› quel che è la perfezione della realtà, bisogna spiegare cosa si intende per ‹conoscere› e per ‹ordine› a questo proposito.
Un po’ tutti i filosofi hanno asserito che la conoscenza del bello non è tanto o solamente razionale, ma che dipende da altre facoltà. Il termine conoscenza richiama senza dubbio la facoltà della ragione, mentre per l’affettività non abbiamo un solo termine inequivocabile, ma vari modi di dire che descrivono le diverse capacità delle virtù dello spirito. I vocaboli ‹riconoscenza› e ‹coscienza› si usano più comunemente nei riguardi del bene promosso dalla virtù della benevolenza, quello di ‹fiducia› e ‹credibilità› nei riguardi del vero attestato dalla fede, la conoscenza del bello dipende da una certa ‹sensibilità›, che d’altra parte non è una sensazione e non è nemmeno del tutto pura intuizione. Un termine generale che riassume tutte queste comprensioni è ancora quello di ‹coscienza›, perché in qualche modo si avverte che pur essendo motivate dall’affettività e non dalla ragione, non possono concludersi senza l’intervento della ragione stessa.
Il giudizio del bello
In effetti quando l’uomo conosce il bello, il bene e il vero, non compie un atto puramente razionale o puramente spirituale, ma emette un ‹giudizio› che coinvolge nello stesso tempo ragione e affettività, senza l’esclusione del ‹proprio› insito nella sua natura. Il Giudizio è di pertinenza dell’uomo, come la conoscenza della ragione, la riconoscenza della natura, ovverosia dell’essere e, la coscienza dello spirito.
In questo senso si capisce subito che come il giudizio di bene non può essere solamente utilitaristico, perché si baserebbe strettamente su una razionalità concettuale, per lo stesso motivo anche il giudizio di bello non può essere solamente di gusto. Il bello, come il buono, è quel qualcosa che riguarda solamente e del tutto l’uomo o, in altre parole, è ‹umano›, oppure compete a quell’altro essere che non solo conosce gli ideali, ma che li crea e, in questo caso, il bello è ‹divino›. Da un punto di vista pratico, si capisce subito che ciò che è, per esempio, immorale o falso non può essere giudicato bello.
Quindi, se questo giudizio è in ordine all’idealità, anche il termine ‹ordine› non può significare solamente ordinamento. Questo vocabolo potrebbe essere usato nell’ambito della razionalità, non in quello dell’affettività e, ancor meno, per quel che riguarda il ‹giudizio› proprio dell’uomo nella sua interezza. Anche il termine ‹ordine›, come idea, indica un ideale da raggiungere, che ha tutte le caratteristiche di essere bello vero e bene.
Anche a questo proposito ci manca un termine che renda questo significato in modo completo. Questo dipende dal fatto che le parole esprimono meglio il razionale dell’uomo e non la sua affettività. L’amore di un uomo, per esempio, non si riconosce per il solo fatto che lo dice o lo afferma, ma perché lo sa dimostrare con i fatti. Nello stesso modo, l’‹ordine› non sta nel dire, ma nel fare: comincia con un riassettare la confusione, disporre i procedimenti, concludere le istanze, e non è solamente questo. In pratica l’uomo ha una comprensione delle virtù e dei loro effetti perché le vive e non perché le analizza. L’uomo capisce il bene quando ama, non quando studia la virtù dell’amore, così capisce il bello quando spera e non quando chiude gli occhi davanti agli ideali. Si potrebbe affermare con un gioco di parole che questa comprensione consiste in una sorta di esercizio nel superare le incomprensioni. L’uomo che comprende come superare il brutto creando il bello dove manca, costruisce un giudizio inoppugnabile di cosa sia ‹il bello›. Si tratta in questo caso dell’arte che è la capacità di creare il bello e quindi di avere un giudizio sicuro a questo riguardo.
In pratica come la verità diventa incontrovertibile quando non dipende solamente da uno studio razionale, ma è il frutto di quel giudizio – affettivo, razionale, secondo natura – che costruisce quei quasi enti che chiamiamo ‹conoscenze›, così è il giudizio di bellezza di colui che crea bellezze nuove, usando quei materiali che di per sé non sono né belli né brutti, ma sono così amorfi da meritare persino qualche volta il termine di brutto.
Lo studio dell’estetica si rivolge quindi alla considerazione dell’arte.
Arte e tecnica,
Come l’uomo ha una ragione se possiede una capacità pratica, e come ha una natura e nello stesso tempo un patrimonio genetico, così lo spirito possiede le virtù ed una cultura. Ovviamente l’uomo non è un insieme di parti meccaniche e la cultura non è solo dello spirito, tuttavia si può considerare di sua specifica pertinenza, mentre per indicare la cultura dell’uomo nel suo insieme noi usiamo il termine di civiltà. Un uomo è civile, anche perché è colto, ma un uomo colto può anche essere incivile se, per esempio, è irragionevole. Le capacità pratiche sia della natura, sia della ragione sono diverse e si manifestano nel lavoro e nello studio, così la pratica delle virtù dello spirito si manifesta nella morale e nell’arte. L’arte quindi possiede un aspetto teorico ed uno pratico. La filosofia può contribuire alla comprensione teorica dell’arte, non a quella pratica che è prevalentemente riservata ai cultori delle varie arti. In questo senso si tratta dell’arte come tecnica che è necessaria, ma non sufficiente ai fini della creazione del bello. In ogni caso un qualcosa di bello che sia solo spontaneo, ma non perfezionato dalla tecnica, non raggiunge quella perfezione che lo rende universale ed imperituro. In questo senso come la scienza rimane un argomento poco chiaro per chi non è scienziato, così si è attribuita all’arte una sua vaghezza che la fa attraente ed amabile, ma indefinibile e inimitabile. Si tratta di giudizi permessi da una razionalità non chiara e non purificata, infatti, sia il bello, sia l’arte che lo esprime, sono di pertinenza di tutto l’uomo e non solo del suo spirito e, per questo, sono diversamente percepiti, o valutati, oppure valorizzati nelle varie età dello sviluppo cognitivo. Si può parlare in questo senso di un’arte iconica, oppure concettuale e, infine, eidetica, ma proprio su questi argomenti sono necessari gli studi degli artisti, più che dei filosofi. In questo senso alle volte la fantasia potrebbe essere solamente espressione di un’arte ancora bambina con una conoscenza iconica e non elaborata con un processo eidetico di valorizzazione. A questo riguardo un vero artista merita il nome di genio, non solo perché possiede doti naturali, ma ha anche esercitato i suoi talenti, e ha studiato il suo mestiere.
Bisogna essere riconoscenti nei riguardi dei veri artisti, come lo si è nei riguardi degli scienziati. Sono persone che hanno arricchito l’umanità, ma noi le stimiamo soprattutto, non solo per il vero ed il bello che hanno prodotto, ma perché non hanno risparmiato impegno, studio, lavoro e sacrifici per potercelo donare. In questo senso, come un santo è onorato per il bene che ci ha dato, così anche loro ci hanno trasmesso qualcosa che è talmente ‹umano›, da essere un’immagine vera ed una espressione concreta del ‹divino› sulla terra.
Corollario delle virtù
Il metronomo delle virtù
Le virtù sono per l’uomo una specie di metronomo la cui asta non sta ferma nel mezzo, ma oscilla tra una posizione e un’altra; esprime, così, un movimento, una comparazione, un qualcosa di tutt’uno e di dinamico insieme, com’è la salute che non è una stasi, ma un’armonia di particolari uniti in un insieme.
Il pendolo della fiducia oscilla tra la semplicità e la prudenza, l’amore tra la magnanimità e la giustizia, la speranza tra l'umiltà e l’impegno.
Tutte le virtù non sono un composto, come invece sono le sensazioni, ma un totale: se uno non è semplice e prudente nello stesso tempo, non è nemmeno fiducioso e finisce o con l’illudersi o con l’ostinarsi. Così, se dona, ma non apprezza, delude e non ama; allo stesso modo, finisce nel ricadere nel vago e nell’illusione se, anche quando è modesto, non fa seguire a questo sentimento il suo impegno.
Le virtù rappresentano una specie di equilibrio tra condizioni volitive che sembrano opposte. Questa apparente opposizione è insita nella natura stessa dell’affettività che si manifesta sia nella distinzione, sia nell’unità.
Si capisce come la fiducia, l’amore e la speranza in quanto unità si esprimano come semplicità, magnanimità e modestia, mentre, in quanto distinzione, si manifestano come prudenza, giustizia e impegno. Perché la virtù è una misura ed essa misura quei valori che noi chiamiamo, con il termine di virtù.
Le virtù generano quindi un equilibrio.
Alcune volte con questo termine si intende un certo superamento di una tensione, se non di un’opposizione, che invece, più precisamente, significa non un contrasto, ma un campo di azione, dove le forze affettive trovano sempre una risultante direzionale, logica, armonica, pacifica, per cui vale anche l’opposto: se l’esercizio di una virtù apporta tensione e turbamento, l’uomo si trova inesorabilmente più esposto ai vizi che non alle virtù.
La differenza tra affettività e volontà.
L’affettività è accompagnata da una maggiore emotività, mentre la volontà da una certa razionalità aggiunta. Con il solo affetto è più facile ‹amare› una persona, ma davanti alle prime difficoltà cadono molte illusioni e l’amore rischia di raffreddarsi. La volontà, invece, presuppone una maggiore concretezza, è determinata nell’ottenere il bene, vuole bene alla persona amata e non ha timore dei costi necessari. Nonostante tutto l’affettività può essere un grande aiuto per la volontà.
I vizi
Per comprendere meglio le virtù serve il loro paragone con i vizi. Essi sono l’opposto delle virtù e non solo una mancanza.
L’opposto della fiducia non è la sfiducia e nemmeno la disistima, ma l’inganno che comincia con le bugie di comodo e arriva all’asocialità.
Il vizio opposto all’amore non è l’egoismo – che può anche essere considerato un tipo di amore smodato di sé, giusto nel fine, sbagliato nei modi – ma è la malvagità, il volere il male per il male, il voler cercare un piacere nel dolore altrui e che comincia con gli scherzi innocenti e finisce con il sadismo e la perversità.
Il contrario della speranza non è solamente la disperazione, ma è la presunzione, che comincia con delle banali forme di neurosi per arrivare a degli stati maniacali di grandezza che rovina poi in forme di depressione, in successivi cicli ricorrenti.
Già solo nell’enumerare questi vizi ci si accorge subito che assomigliano a certe forme di disturbi psichici. Bisogna tuttavia saper distinguere i vizi dalle malattie. Queste ultime appartengono all’esistere fisico dell’uomo, non sono volute, dipendono dalla materia e dai suoi limiti. È inutile indagare se in questo caso l’uomo ne abbia colpa. Egli non ha né colpa né merito come nel caso che, dopo aver sfoggiato in gioventù una folta chioma di capelli neri, si ritrova, più avanti negli anni, con una terribile piazza in testa e con pochi ciuffi grigi sulle tempie. I vizi invece sono voluti, può anche darsi all’inizio solo per gioco e quasi inavvertitamente, ma questa inavvertenza riguarda le conseguenze, non la loro approvazione. Essi appartengono quindi allo spirito, che è l’organo della volontà, anche se si manifestano nell’esistere dell’uomo. Possono essere confusi con le malattie perché si presentano con gli stessi sintomi, che mettono a dura prova chi le deve curare, che sa benissimo come, a un certo punto, al di là del fisico, si entra nel campo della morale, la cui definizione è pur sempre difficile e non sempre univoca.
A proposito della fiducia il contrario della semplicità consiste nell’artificiosità che complica la verità, perché pretende di esercitare un dominio sulla realtà; mentre il contrario della prudenza è quel controllo poliziesco che trova la sua ragione nel sospetto che le intenzioni altrui siano tutte malevole, magari solo perché chi comanda trasferisce le proprie cattive intenzioni sugli altri e riserva a se stesso la pretesa di possedere solo quelle buone.
Il contrario della speranza è quel far dipendere la realtà dalle proprie illusioni, nella pretesa di evitare i costi necessari per tradurla in pratica, con la conseguenza di un disimpegno e di una irresponsabilità, alle volte, fatali.
L’odio è riconosciuto generalmente il contrario dell’amore, più precisamente, va contro la magnanimità e la generosità perché è il risultato di una prodigalità deludente o di un’avarizia compulsiva; nello stesso tempo, è il contrario della giustizia, perché è sempre una scelta di parte che genera competizioni, rivalità e conflitti.
Dopo questi brevi cenni sulle virtù si capisce subito che esse hanno bisogno di una spiegazione razionale per essere comprese meglio che si basa, quindi non solo sulle capacità affettive dell’uomo, ma anche su quelle intellettive.
L’Ordine
L’ordine è qualcosa di diverso dalla ragione e dalla natura, per cui deve esser studiato in particolare senza confonderlo con le altre due ‹distinzioni› del sinolo uomo. Esso si esprime in modo valutativo e non in modo discorsivo come la ragione: in pratica la ragione fornisce gli elementi per un giudizio di corrispondenza secondo il ‹principio di verità›, mentre l’ordine formula un giudizio di valore secondo il ‹principio di giustizia›. La differenza è ancor più chiara se si considera che noi esponiamo i nostri argomenti logici comunicandoli per mezzo di parole, mentre apprezziamo i valori misurandoli per mezzo di numeri. A questo proposito i numeri razionali sarebbero delle parole inviate alla valutazione dell’ordine espressi successivamente in numeri naturali, un po’ come se la ragione si rivolgesse all’opera di un ‹ordinante› per potersi manifestarsi ordinata e senza confusione.
L’ordine è ancora del tutto differente dalla natura. La natura è produttiva ed efficiente in base ad una ‹memoria› che è un ‹progetto› – non in base alle virtù – l’ordine invece possiede una tensione o una sorta di energia che indirizza verso uno scopo che ovviamente presuppone un inizio voluto. Un bambino cresce sempre anche se non conosce i perché ragionevoli della sua vita, ma cresce sano se, oltre ad avvertirne o prevedere il suo futuro, riconosce i valori che rendono la vita preziosa in base a uno scopo da raggiungere.
Lo spirito dell’ordine – come contesto e disposizione valorizzante –, l’esistere razionale e l’ente natura sono distinzioni tutte e tre necessarie per ogni cosa o persona che non mancano mai, tuttavia solo l’uomo e in genere le persone, approvano volutamente l’ordine del proprio spirito, mentre le realtà lo eseguiscono automaticamente senza coscienza e senza approvazione.
L’ordine delle cose materiali è materiale e passivo cioè temporale e spaziale: in pratica non misura la realtà ma è misurato con l’orologio e con il metro. In altre parole, la materia ha ricevuto un ordine necessario e ineludibile, mentre l’uomo, dotato di personalità, ha ricevuto un ordine che ordina, ovverosia è come una forza che anima e regge le ‹distinzioni› proprie dell’uomo. Senza un ordine la natura dell’uomo è abulica e inefficiente; in questo ambito invece nell’esaminare i dati di fatto è predittiva. Senza un ordine la ragione è confusa e inconcludente, mentre applicato in questa distinzione, considera i particolari in modo analitico e espositivo, perché è attivo (intelletto agente), ovverosia valorizzante. Un esempio di ordine logico è quello che viene in evidenza nella possibilità di studiare un fenomeno naturale, mentre un esempio di ordine naturale è intuitivo e inerente alla sua efficienza ancor prima di essere conosciuto del tutto.
In pratica l’ordine è una sorta di regalo che lo spirito fa a se stesso per volere secondo libertà, che fa ancora alla natura per valorizzare le sue efficienze e i suoi effetti, infine alla ragione per finalizzare i suoi fini, ovverosia per cambiare le intenzioni e le ipotesi in cause e conseguenze. Se non esistesse l’ordine dello ‹spirito›, non avrebbe nemmeno senso parlare di ‹esistere› e di ‹essere›: è lo spirito che valorizza sia l’uno, sia l’altro e che li unisce, per l’appunto, per raggiungere un ‹valore-naturale› e per eseguire un ‹compito-esistenziale› o, in altre parole, li rende ‹ordinati a…›.
Come abbiamo già detto, oltre all’ordine applicato nel campo logico e in quello naturale c’è, a maggior ragione, un ordine dello spirito che riguarda l’affettività e la volontà o, con una ripetizione, che è ‹ordine di ordine›. Esso ha il suo fondamento nelle virtù che hanno meritato un’esposizione particolare e trova un suo organo specifico nella coscienza dell’uomo.
I giudizi
Alla fine delle considerazioni sulle virtù, a proposito della speranza, quasi spontaneamente, come di per sé sono le stesse virtù, il discorso si è soffermato sul giudizio del bello, ma non a caso, perché propriamente il giudizio è, per così dire, il prodotto tipico delle virtù dello spirito. Una mamma mette in guardia il suo bambino di un pericolo raccomandandogli l’attenzione, ma quando, per esempio, lo accompagna il primo giorno a scuola, lo esorta: “Giudizio!”.
Le virtù sono la fucina dei giudizi.
L’uomo s’informa con la ragione e discrimina le qualità per produrre conoscenze, mentre con le virtù pesa il pro e il contro di ogni azione prima ancora di metterla in atto e produce in questo modo giudizi. Quando poi, metterà in pratica, a ragion veduta e a giudizio deliberato il da farsi, eseguirà opere, o meglio, produrrà il bene. Come le ragioni sono più o meno chiare, così i giudizi sono, in grado diverso, decisivi e, altrettanto, il bene può essere maggiore o minore fino a diventare mancante persino in un male che rappresenta una mancanza di bene.
Se le virtù sono la fucina dei giudizi, lo spirito è l’organo deputato alla loro delibera, sebbene questa o quell’altra virtù sia più coinvolta nel produrli, concorrono tutte insieme nel formularli. La virtù della speranza è come l’aurora incantevole di una bella giornata di sole. La fede è incrollabile come la certezza di un dato di fatto e la benevolenza è amabile come la consolazione di un aiuto insperato. Tutte insieme le virtù sono responsabili del giudizio di bellezza o di grazia, di verità e di libertà.
Il giudizio di grazia
Un bambino non dice che la mamma è amica o che le sue promesse sono provvidenti e previdenti, ma che è bella. La grazia e la bellezza sono compagne. La bellezza si può descrivere e rammenta le qualità che si possono riferire con le parole della ragione. La fiducia invece in una promessa è forte come quel legame stretto che rappresenta un lavoro o un operare insieme e che assicura di essere un bene come sono le caratteristiche della natura, sempre effettive e mai artificiali. La fede,infatti, è più vicina alle proprietà naturali dell’essere di persone e di cose. Infine la bellezza è amica come sono le stesse virtù dello spirito. In altre parole il giudizio di grazia non è naturale anche se riguarda la natura delle cose, non è ragionevole anche se non è irragionevole e non è spirituale, ma se mancasse lo spirito la bellezza sarebbe un falso che dura una giornata come una rosa che perde i petali ma non le spine. In altre parole, la grazia consiste in una peculiarità dello spirito che non è la minore.
Epilogo sullo spirito
Dopo aver tante volte accennato allo ‹spirito› come lo scrigno delle virtù, è tuttavia necessario prenderlo di nuovo in considerazione a sé stante, come quella ‹distinzione› spesso dimenticata eppure essenziale all’uomo per manifestare e per comprendere i suoi sentimenti e quelli del suo interlocutore se è una persona, mentre se è una realtà materiale per comprendere i sentimenti di Chi, in esse, ha depositato un ordine. È cominciando, per l’appunto dai sentimenti, che ricerchiamo una comprensione di questo termine, che deve pur indicare qualcosa, infatti, non privi d’una consistenza propria come se somigliassero solamente a una illusione momentanea o a una sottospecie di ragione poco controllata.
Cos’è lo spirito?
Non basta affermare che lo spirito non è materia, perché in questo modo non si dice quel che è e la domanda rimane senza risposta.
Per comprendere cosa sia lo spirito mi servo di un’analogia, cioè uso un paragone, ma non artificioso (immaginario), anche se artificiale (scelto con arte), perché la distinzione tra questi due termini indica già una certa spiegazione della differenza tra un suo uso immaginario ben diverso da uno immaginato e voluto che l’uso di questo termine di per sé ‹materiale› apporta invece con una spiegazione spirituale.
In ogni caso, e come paragone, quando io vedo, guardo e poi considero un fenomeno che consta di un principio e di un fine o, più precisamente, di un inizio e di un termine, oltre a considerare questo fenomeno, posso ancora invece vedere il contesto che lo regge perché con la parola ‹regge› indico un’energia, indipendente dal fatto che questo fenomeno sia materiale o spirituale. In altre parole, io vedo un principio non ancora un fine, ma penso che se qualcosa si muove è perché dopo un prima c’è un poi e, così pensando, introduco nel mio modo di vedere un’altra visione: quella di un ordine che è non visibile, anche se è fatto di tempi e spazi materiali. In questo modo, nel constatare gli effetti di un ordine non lo posso vedere, né conoscere, ma lo devo rispettare e riconoscere.
Tra vedere e rispettare c’è la stessa differenza che passa tra corrispondenza e con-sentimento (consenso), tra accomodamento e assimilazione.
In pratica una visione strettamente materiale (oculare) offre la possibilità di una conoscenza incompleta, perché non ordinata, quel che manca, è una volizione necessaria espressa dal fenomeno e insieme un’adesione voluta e assenziente da chi lo conosce che non può mai essere indifferente e senza scopo.
Lo spirito, con una dizione esagerata e impropria, sarebbe la natura e la materia dell’ordine o, più precisamente, lo spirito che è ordine e non materia, si fa vedere materialmente come tempo e spazio, ma anche in molti altri modi che con l’esempio fatto non sono stati presi in considerazione e che un po’ tutti sono compresi nel termine di causalità e di finalità. In un certo senso si può affermare che la materia dello spirito sia solamente la matematica che misura spazio e tempo, mentre le distanze e le ore sono solamente la pratica o la tecnica applicata dall’esistere per corrispondere con la descrizione alle istanze volitive dello spirito.
Si può concludere affermando che lo spirito produce misure come l’essere opera bene e l’esistere esamina ragioni, ma le misure sono spirituali anche se assumono una veste materiale quando stimano cose materiali, perché anche in questo caso sono mosse dalla volontà e dall’affettività.
In questo senso si possono vedere le realtà, sia con gli occhi materiali, sia con la stima dello spirito: lo spirito dell’ ‹essere› di un fenomeno è il ‹tutto-azione di uno scopo in vista di un bene› senza alcun impedimento per raggiungere questo scopo. Lo spirito dell’ ‹esistere› è ‹tutta-attualità-corrispondente› senza divisioni e lo spirito dello spirito è ‹tutta-finalità-voluta› ma non senza ordine, ovverosia senza confusione.
Se vogliamo tornare a parlare di materia, tuttavia si capisce subito che la confusione è disordine, e non è contingenza o occasionalità e, ancor meno una sorta di fato imposto da una ‹mano occulta›.
Cos’é l’amore?
La differenza tra pesi e misure, tra tempo e matematica ha lo stesso riscontro a quella esistente tra sentimenti e affettività. I sentimenti sono il materiale della volizione.
Lo stesso termine di ‹amore› nella lingua parlata ha due significati diversi che sembrano alle volte perfino in contrasto tra loro come avviene quando l’amore non non ha niente a che fare con una delle virtù.
In questo senso dobbiamo ancora riprendere in considerazione il significato di questo termine.
Una comprensione che si presenta impossibile di un qualcosa che tuttavia sembra necessario, diventa più accessibile se si prende da quel solo punto che appare più semplice dell’intero complesso per poter continuare a svolgere il tutto un poco alla volta, così come si fa abitualmente con una matassa di fili aggrovigliati, cominciando da quel capo pur nascosto, ma ancora libero d’essere preso. Questo considerare l’unico meno, che è il più chiaro, per portare luce nel più oscuro, ovverosia usare a tutti i costi il più accessibile, dimenticandosi di ciò che è impossibile, si può chiamare cognizione apofantica. Il termine è usato dagli teologi che ammettono una certa comprensione possibile della perfezione di Dio da parte degli uomini che non sono né perfetti né divini. Questo stesso modo di impostare la cognizione serve per rendere comprensibile con la ragione quel sentimento che si chiama amore.
Intanto bisogna dire che l’amore non è una cosa o una qualità o una caratteristica, ma è almeno un sentimento. Ora, come il termine di bene trova la sua spiegazione nel servizio prestato da una realtà per mezzo delle sue ‹caratteristiche› naturali, così il termine amore trova il suo significato in un servizio diverso, prestato da una realtà per mezzo delle ‹peculiarità› dello spirito. Quindi l’amore, così come lo spirito, non si può descrivere e, di conseguenza, non si può analizzare né scomporre per vedere come è fatto, ma si può accettare così come si fa sentire, oppure rifiutare come se non esistesse. Infatti, questo ‹sentire› – questo ‹sentimento› – lascia a chi lo accetta una impressione inconfondibile e lo induce con un’energia nuova a corrispondere con altrettanto amore. L’esistere osserva e deduce, cioè descrive quello che l’essere è, mentre lo spirito unisce per esprimere quel che comunica non come conoscibile, ma come riconoscibile, ovverosia degno in toto di stima: l’amore non si può analizzare, né vedere, né prendere in mano e nemmeno conoscere, tuttavia muove la materia stessa e induce la ragione a trovare, non una spiegazione, ma una prova. In questo senso lo spirito non serve per approvare e spiegare l’amore, ma per comprovarlo e avvalorarlo, ovverosia dispone il suo interlocutore ad accettare amore, oppure a rifiutarlo, ma non come i dati di fatto e i dati di ragione, bensì come i dati di cuore. Così dicendo si è già escluso quello che l’amore non è e, quindi, si è già definito un poco di più quello che, al contrario, è. In pratica per conoscere l’amore bisogna seguire questo metodo: la ragione non può affermare un sentimento, ma accettarlo con stima o rifiutarlo con disprezzo, mentre, al contrario, può assentire o negare quel che invece è una spiegazione, anche, per esempio l’affermazione di un sentimento illusorio e bugiardo. Si tratta di una certa logica che chiameremo apofantica, ovvero che conosce in base a prove che si basano su un ordine riconosciuto, anche quando mancasse la possibilità di tutti i termini e di tutti i particolari di un’osservazione e una descrizione analitica.
È la logica tipica che si basa sull’analogia e non sull’analisi. L’analogia è l’analisi di chi unisce cose distinte per mostrarle insieme in un unico esempio: non è primariamente di pertinenza della ragione, ma dello spirito che la ‹impresta› alla ragione. Solo in un secondo tempo, quando la ragione l’ha acquisita e compresa, può anche descriverla analiticamente, equivalente a un riferire che, in questo caso cambia l’informazione o la comunicazione in una vera e propria ‹comune-unione›. Con questo prestito lo spirito e la ragione, insieme, e in unità, conoscono, più precisamente, ‹riconoscono› superando una conoscenza, che ridotta al puro razionale, risulterebbe invece insufficiente.
Alle volte, un padre, o una madre, permette al loro bambino di sbagliare, non per umiliarlo successivamente, ma per convincerlo e correggerlo ma, in questo modo, hanno già iniziato a usare un metodo che non si serve di dimostrazioni, ma di comprove di tipo apofantico; si tratta di quei casi dolorosissimi, quando il figlio non accetta l’aiuto dei genitori e quando il padre è costretto a scegliere se togliere al figlio la libertà insieme all’amore, oppure lasciargli l’irrazionalità quasi per non togliergli l’amabilità.
È lo stesso metodo che usiamo, quando prendiamo in considerazione un esempio, per così dire, sbagliato. Tempo fa, se la notizia è esatta, il governo australiano avrebbe sottratto ad alcuni aborigeni i loro neonati per educarli all’altezza del progresso moderno. Si voleva fornire a questi uomini nuovi, fin dalla prima età, quello che i genitori non avrebbero mai potuto dare a loro, ma il risultato purtroppo fu disastroso, infatti, questi esseri rimasero senza radici, non perché era mancato il padre e la madre, ma il loro amore. Per questi bambini sarebbe stato migliore un amore senza beni, piuttosto che i beni e le ragioni senza cuore.
È questo un esempio che chiarisce tante cose, anche quel cosiddetto metodo di conoscenza che è proprio dello spirito dell’uomo che consegue non a un esperimento scientifico, ma a un vissuto esperienziale che fa testo, perché è esemplare e che, ripetendomi ho chiamato ‹comprensione apofantica›, oppure ‹comprensione positiva›.
Il giudizio di verità
Qualcosa di analogo si può dire del giudizio di verità che di per sé abitualmente si ascrive alla ragione, infatti, la ragione è responsabile di fornire allo spirito delle corrispondenze logiche, ma lo spirito è responsabile di renderle certe proprio perché oltre a non essere irragionevoli, sono anche consone con le altre distinzioni dell’uomo, sia con la natura, sia specialmente con lo stesso spirito. Ciò che non è falso è vero, perché non è un’illusione come una fiaba e non è artificiale come un surrogato, nemmeno compiacente come un inganno, ma soprattutto perché ha la forza delle peculiarità dello spirito che assicurano e non ingannano. Una conoscenza falsa non è vera perché non è sicura. Un opera artificiosa come un anello facsimile d’oro, non è vera, perché non è preziosa.
Ma quel che illustra meglio il contrario di cosa sia il giudizio di verità è il termine di ‹carità pelosa› che non è amore, perché è sporcata da un guadano nascosto che non corrisponde mai alla pura verità.
Epilogo sulla verità
Sincerità - verità - analogia
La conoscenza delle caratteristiche naturali
Tutti i filosofi, chi più chi meno, hanno sostenuto che ogni conoscenza comincia con l’esperienza, alle volte senza precisare come e in che cosa consiste codesta esperienza, con la conseguenza che non sempre è usata, per quanto e per come sarebbe opportuno.
Intanto bisogna ammettere che la sola sensibilità non è ancora esperienza, poi, che l’esperienza non è nemmeno sinonimo di conoscenza, né di osservazione che può rimanere occasionale, né di attenzione che è soggetta alla volontà, ma non ancora all’analisi della ragione. La conoscenza comincia con un’esperienza ma l’esperienza si spiega quando si approva e ha valore se, e solamente se, è provata.
Che differenza c’è tra sensibilità ed esperienza provata?
È quella paragonabile che intercorre tra sincerità e verità.
Perché ci possa essere verità ogni sincerità deve essere provata dai dati di fatto, 1) dalle possibilità che essa consegue, ossia oltre il dire deve realizzare il fare e 2) dall’ordine che nasce tra volere e fare, ovverosia tra premesse e conseguenze.
Come la prova permette alla sincerità di diventare vera così dona all’esperienza un certo ordine e una determinata possibilità che rende indubbia la conoscenza. È sincero chi dice di conoscere il ferro perché ne ha visto un manufatto, ma non può affermare di conoscerlo veramente se non è capace di lavorare questo metallo, a meno che le sue asserzioni non dipendano da un suo atto di fede nelle dichiarazioni fatte da un provetto (provato) fabbroferraio. In sogno e con il desiderio si possono vedere tante cose, ma nessuna è vera finché non è provata.
La stessa esperienza non avviene se non insieme alla prova e ogni prova non è mai a priori e ancor meno innata, né spontanea, bensì si costruisce nel contesto della conoscenza che è un evento bipolare: esiste un contributo possibile da parte dell’oggetto e nello stesso tempo un altro da parte del soggetto conoscente; in questo senso, si può affermare che la conoscenza è reciproca tra i due, almeno per quel tanto che ciascuno degli interlocutori usi di questa facoltà. In pratica non è a priori e non è a posteriori, ma è attuale, nel senso di attuazione o esecuzione, ovverosia ogni conoscenza è sempre ontologica e ordinata, cioè non solo reale ma anche analogica e, se manca l’analogia, fa difetto anche la logica e ogni conoscenza diventa o falsa o ‹cattiva›.
Il contributo dato dalla possibilità di conoscere consiste nell’effetto dei fatti che a sua volta dipende dall’efficacia-efficienza degli interlocutori, solamente se animati da una certa energia che si esprime in un ordine. L’ordine è spontaneo, ossia non dipende né da una necessità né da un evento occasionale, ma è voluto nel senso di riconosciuto – stimato, scelto, eletto e quindi accettato –, mentre l’efficienza è voluta nel senso di prodotta. Il risultato di questa sorta di connubio tra percepire sperimentale, volere intenzionale e potere efficiente è una conoscenza altrettanto voluta nel senso di determinata e altrettanto costruita, nel senso di efficace o precisata o, con una parola comune, è chiara e naturalmente ovvia.
In questo contesto il termine di controllo non ha alcun senso. Non si può controllare la verità di una conoscenza, ma arricchirla con una riconoscenza e provarla con quel servizio che essa rende. Chi asserisce di controllare una situazione, è come quel pompiere che non si è lasciato incenerire dal fuoco, ma che non è riuscito ancora a spegnerlo: dice di controllare e invece tollera. La conoscenza non è né un convivere né un compromesso, è invece bensì una ‹unità›.
Ebbene il prodotto di questa unità, quando diventa efficiente, ossia possibile, si manifesta come quel bene che ha le sue radici nella natura di ogni essere e, a maggior ragione, nella natura di quell’essere che si sente responsabile dell’unità stessa perché non solamente la produce, ma la sceglie e la conosce.
Il giudizio di libertà
La bellezza è luminosa, la verità è chiara. La libertà è incontrastata. Come tutte le virtù ha la peculiarità di essere forte e, nello stesso tempo, di generare la pace. Il giudizio di libertà assomiglia a quello che comunemente si chiama giudizio morale. Alle volte, la morale sembra immorale, perché assomiglia a una catena che impedisce di fare quello che si vuole, mentre al contrario un uomo è libero non tanto e non solo quando si sente amato, ma quando può, perché vuole amare. Si possono amare anche i nemici e, almeno in questo senso, l’uomo è libero persino di fare dei miracoli ben più grossi del guarire le malattie, che sono i comuni piccoli miracoli che oggi possono fare abitualmente i medici, purché anche questi, possibili solo, se non manca amore.
Il giudizio di libertà è, sotto certi aspetti, tra tutti i giudizi dello spirito il più spirituale, anche se non è mai irragionevole e ancor meno contro natura. Soprattutto ha una sua nota evidente sebbene peculiare per ogni virtù: come se fosse produttivo di un quel bene maggiore che è la pace. Si tratta di un’opera diversa da quelle della natura. Le proprietà naturali generano il bene e i beni come una pianta i suoi frutti, mentre lo spirito scava la terra e produce le radici che assicurano alla pianta il suo nutrimento.
Corollario su il giudizio
Ogni giudizio dipende da una delibera promulgata da un tribunale che per il giudizio di libertà si chiama coscienza. La coscienza è il tribunale che giudica tutti gli altri tribunali sia dello stesso spirito, sia delle altre distinzioni dell’uomo. Senza coscienza lo spirito è morto e l’uomo da animale partecipe scade per diventare un animale necessario e condizionato. Tutti gli uomini sono necessari, ma più necessaria è la libertà per chi vuole essere uomo.
Da tutte queste considerazioni appare evidente come affettività, volontà, libertà, pur con significati propri, siano strettamente legate tra loro.
Lo spirito non spiega il valore dell’uomo, ma lo testimonia. Per via della ragione l’uomo è una persona competente, per la sua natura è un incaricato responsabile, per lo spirito è un eletto e, alle volte, un profeta o un martire. In altre parole l’uomo ha un disegno da tracciare, un incarico da compiere e una vocazione da testimoniare.
Le proprietà dell’essere
Introduzione allo studio dell’ontologia
Dalla conoscenza esistenziale alla coscienza spirituale e, quindi, alla costituzione naturale delle realtà.
Fino a questo punto la nostra attenzione si è rivolta principalmente alla conoscenza della realtà e ci ha permesso di indagare l’ordine che la governa.
La nostra attenzione si rivolge ora all’osservazione delle proprietà naturali delle varie realtà e, in particolare, dell’uomo.
Conoscenza logica - conoscenza ontologica
Si possono usare i termini di conoscenza logica e conoscenza ontologica non tanto per indicare due conoscenze diverse, ma per descrivere due diversi significati interpretati o intuiti dal soggetto conoscente. In questa accezione, possiamo tentare una spiegazione del significato dell'uno e dell'altro termine, non solo per classificarli, ma per servirsene al fine di aumentare la conoscenza stessa.
La conoscenza logica consiste nella descrizione, che è anche comunicazione o esplicitazione di un evento, ovverosia di come si sviluppa e si conclude un determinato processo, senza ricercarne i vari significati se non quello di una ripetibilità possibile dell’evento cognitivo. Così intesa, vuole portare chiarezza in tutte quelle oscurità che mettessero in dubbio l'evento stesso o che lo facessero ritenere un artefatto o una’illusione percettiva. In questo senso si tratta di una conoscenza del decorso di come le varie realtà si rapportano tra loro e, quindi, esistenziale e analitica.
La conoscenza ontologica, invece, descrive un evento di un qualcosa che si realizza perché l'evento stesso ne rivela l’effettività se, infatti, consegue la produzione di quell'ente nuovo che si chiama conoscenza.
L'evento logico riguarda o riferisce le verità di ragione, mentre l'evento ontologico riguarda la produzione di dati di fatto, non solo come avvenuti, ma anche come previsti e costruiti su una base naturale, a differenza ancora dei dati di coscienza che indaga il valore, sia della produzione, sia del decorso dello stesso evento produttivo.
Ovviamente non ci sono verità diverse, ma le stesse verità possono essere conosciute in modo diverso. Chi osserva e descrive un fatto non si preoccupa di testimoniare le cause né gli scopi che lo hanno determinato, per limitarsi a riferire i principi, il decorso e le conclusioni dei fenomeni osservati. In un ambito del genere, la conoscenza logica dipende dalla sincerità delle osservazioni e dalla chiarezza delle descrizioni, in modo da escludere il contrario di ciò che invece è avvenuto. Le sue definizioni sono quindi necessarie e sintomatiche, mentre la conoscenza ontologica comprende l'efficacia di un evento, ma anche prospetta la possibilità sia di un ripetersi della stessa efficacia, sia l’esistenza di efficienze diverse con processi diversi che l'evento non ha mostrato, ma non ha nascosto e, in questo senso è anche predittiva.
In pratica, la conoscenza logica è una preparazione alla conoscenza ontologica: la prima riguarda la verità necessaria, la seconda indaga le verità possibili o, in altre parole, l'una è deduttiva e l'altra induttiva.
Conoscenza assiomatica (evidente)
Da un punto di vista più generale, si può affermare che la conoscenza consiste in un rapporto o in una relazione tra conoscente e conosciuto per dar forma a quel quasi ente che possiamo chiamare ‹con-conoscenza› (acquaintance).
Essa dipende per un verso da come il conoscente sa assimilare la realtà e dall’altro da come la realtà si sa adattare al soggetto che la conosce. L’assimilazione dipende da un’accettazione (recepire), quindi da una scelta e infine da una concettualizzazione che è un’acquisizione di qualità, mentre l’adattamento da parte dell’oggetto conosciuto dipende da un significato che prima è figurativo, poi fruitivo e infine intelligente che è manifestato solo in collaborazione con il soggetto conoscente e solo dopo un’indagine con una ricerca, uno studio e una riflessione. Questo adattamento da parte dell’oggetto che si fa conoscere avviene secondo una procedura che evidenzia un metodo che è attuale e analitico, ovverosia logico, cioè espresso in termini (parole), ma non è ancora né esemplare, né paradigmatico. In questo senso una conoscenza strettamente razionale è precisa e particolareggiata, ossia ‹fenomenologica› e avviene per descrizione, non tuttavia per costruzione di esempi e per comprensione di analogie. Si limita quindi a una ‹con-rispondenza› nei riguardi della realtà che è sincera (veritiera), ma non ancora vera.
Conoscenza esemplare
Il processo cognitivo, insieme o subito dopo, avviene, di fatto, in un modo diverso più complessivo, perché contemporaneamente ad ogni analisi, soggetto e oggetto costruiscono insieme una sintesi che consiste in una assimilazione reciproca; in altre parole non solo si adattano a vicenda, ma si partecipano reciprocamente qualcosa di quello che sono, con una concessione di proprietà che rende possibile un ‹con-fare› – operare in comune – che consiste in una con-partecipazione che, a sua volta, esige un metodo proprio. In questo modo il metodo non è più solamente produttore di un esempio, ma esso stesso diventa esemplare e programmatico al fine di rendere possibile la costruzione di esempi successivi, pur rimanendo esso un esemplare unico – l’esempio è ripetibile, mentre l’esemplare è determinante come un campione di riferimento. Tutte le volte che il soggetto conoscente si troverà nelle medesime situazioni adattive vissute in precedenza, si riferirà ad una assunzione già vissuta da una conoscenza logica, in questo modo il metodo logico diventerà un metodo assiomatico (indiscutibile) o esistenziale. Con questa disposizione il conoscente non deve ricreare una nuova evenienza di ‹assimilazione-adattamento› per ogni realtà, infatti, possiede un metodo assiomatico per riconoscerla avendo a disposizione, per l’appunto, un esempio.
Una conoscenza del genere non si avvantaggia tuttavia ancora di un due altri metodi aggiunti che sono l’esemplare è il paradigmatico. Nel caso il conosciuto fosse solamente la riproduzione di un esempio sarebbe l’equivalente di un ‹ricordato›, ma non di un ‹previsto› e di un ‹programmato›.
La previsione non è un’immaginazione fittizia, bensì una raffigurazione e una spiegazione voluta, non solamente nel suo decorso, ma stimata per il suo valore. In questo modo la ripetizione non rimane una copia, ma diventa un modello e un punto di riferimento per conseguire quello uno scopo previsto che si è voluto intenzionalmente raggiungere in base a un ordine scelto che è insostituibile.
Conoscenza ipotetico-deduttiva
Il metodo logico è dispositivo, l’assiomatico è ordinato, mentre un metodo ipotetico è predittivo, perche si basa su un esame – sempre analitico e ordinato, ma anche ipotedito-deduttivo. Un metodo preventivo deve basarsi su un ordine, altrimenti è senza fondamento reale, ma quello che fa si che un programma non sia un’illusione sta nella scelta di quella proprietà insita nella natura della realtà, che se mancasse snaturerebbe la realtà stessa perché la caratterizza in modo esclusivo. Per esempio il pane non è solamente fragrante e gustoso per le sue qualità, ma è anche nutriente e, se non nutre chi lo mangia, allora è un pane falso, ovverosia senza quelle caratteristiche essenziali che sono proprie del pane. In questo senso come le qualità espongono il decorrere dell’esistere della realtà – pur essendo sostituibili con altre che esprimono un decorso diverso della stessa realtà –, le caratteristiche naturali sono invece stabili e di proprietà della realtà che le possiede, al punto che se si potessero toglie si denaturerebbe la stessa realtà che diventerebbe simile per qualità ma diversa per natura cioè artificiale oppure del tutto di un genere differente a causa della sostituzione delle caratteristiche naturali.
In pratica il metodo ipotetico - deduttivo risponde con sicurezza alla ricerca scientifica delle proprietà naturali, perché non solo esegue una prova di ogni ipotesi per trovare una causa a ogni fenomeno, ma può facilmente identificare tutte le ipotesi che non riescono a riprodurlo. In questo senso la realtà non solamente è quello che è ma anche non è quello che non può essere. La classificazione delle realtà stesse diventa possibile secondo il loro genere e non per le loro apparenze.
Tuttavia, la conoscenza ontologica non è solamente scientifica, ma soprattutto è pratica. Chiunque non si accontenta di sapere che il pane è un nutrimento, ma vuole mangiarlo per nutrirsi. In questo senso la conoscenza logica acquista un significato effettivo e produce realtà vere nel senso di entità non solo con qualità diverse, bensì anche con proprietà caratteristiche diverse da quelle dei singoli interlocutori che le hanno costruite.
In altre parole, con la cognizione le caratteristiche fungono da materiale a disposizione della costruzione delle conoscenze (acquaintance); sono quindi in servizio di questa conoscenza, ovverosia rappresentano un bene scambiato tra conoscente e conosciuto. Ogni conoscenza è vera se è produttiva e la produzione consiste in nuove caratteristiche necessarie per formare una realtà nuova, che solo in questo modo può servirsi di proprietà e di possibilità che prima del rapporto cognitivo non aveva a disposizione.
La conclusione di tutto questo discorso è evidente: ogni conoscenza consiste in una produzione e in uno scambio di caratteristiche che servono per formularla e per realizzarla, ovverosia che sono un bene reciproco al fine di produrre un bene maggiore. In questo senso i termini di ‹caratteristiche naturali› e quello di ‹bene produttivo e prodotto› sono equivalenti e equipotenti.
La ‹cosa in sé›
In questo senso una discussione sull’esistenza di una cosiddetta ‹cosa in sé› diventa superflua o, al massimo, senza interesse pratico, salvo quello di un’esercitazione accademica. Infatti, alcuni filosofi si sono domandati se l'uomo può conoscere la realtà per quel che essa è oppure solamente nei limiti delle sue possibilità. Questo problema della conoscenza della ‹cosa in sé› ha suscitato, di volta in volta, risposte sufficienti oppure risultati dubbi.
D'altra parte se la conoscenza è un connubio tra conoscente e conosciuto che è reale e se non possiamo mettere in dubbio la realtà di chi l'ha costruita, non possiamo nemmeno mettere in dubbio l’opera operata. In effetti, una cosa in sé non esiste nemmeno se non è conosciuta, ma quando è conosciuta diventa automaticamente una cosa tra l'uno e l'altro degli interlocutori che l'hanno conosciuta.
La risposta a questo problema dipende quindi non tanto dalle premesse ma da quelle premesse e quei dati che ne hanno conseguito risultato.
Il bene e i beni
Nella ricerca di un parere accettabile da tutti ci siamo trovati nella necessità di riconoscere i mezzi e i modi per conseguirlo e abbiamo di conseguenza indicato le ragioni per formularlo e le affettività per sceglierlo. Così facendo ci siamo accorti di quel dato di fatto che consiste nella nostra dipendenza da un dono liberale che noi accettiamo liberamente e che a nostra volta ci scambiamo a vicenda. A questo proposito abbiamo compreso che il dono ha un suo significato particolare che consiste nell’essere un bene. Un dono che non sia un bene è un controsenso.
Ma cos’è il bene?Cos’è il bene?
Di beni ce ne sono tanti, ma l’uomo ne ha bisogno di uno solo specifico in quell’unico momento quando gli sembra mancare. Tutto il suo esistere dipende da una molteplicità di beni che si susseguono continuamente nel loro uso, ma non come pezzi tra loro incongruenti, bensì l’uno dipendente dall’altro, come se la ragione della loro connessione, o l’ordine della loro unità fosse il bene di tutti i beni. Si suol dire che quando un uomo si arrabbia, perché gli manca un qualcosa di necessario, ha perso la ragione, sembrerebbe quindi che sia la ragione il bene di ogni bene, come se non perdendola si potesse sempre trovare quello di cui si ha bisogno. D’altra parte i bisogni aumentano con il crescere delle soddisfazioni che i beni assicurano. In questo senso l’uomo cercherebbe sempre ancora beni dopo ogni bene ricevuto, per cui l’unico vero bene consisterebbe in questa tensione di chi, non mai contento del poco, cerca e aspira di raggiungere una completezza e una perfezione nuova che, tuttavia, sembrerebbero sempre più lontane. In ogni caso, se l’uomo non è mai pienamente soddisfatto nei suoi desideri, né sempre trova risposta alle sue ragioni, non può negare l’esistenza di questo bene perfetto cui egli tende con tutte le forze o, cioè il ‹bene-ideale›, perlomeno come tensione al meglio, se non come soluzione di tutte quelle mancanze che assomigliano al male.
In altre parole, nella pratica comune, il bene consiste nella conseguimento dei vari beni che gli sono necessari come esempio e caparra di quell’unico Bene partecipato in dono che possa corrispondere alla pienezza dei suoi desideri.
Da questo punto di vista non tutto ciò che è a nostra disposizione risulta essere un bene, altre volte provoca un dolore e una repulsione istintiva e noi ci troviamo improvvisamente davanti a un male.
Per questo dobbiamo ripetere la domanda: cos’è il bene?
Una risposta e una spiegazione noi la troviamo riprendendo in considerazione i dati di fatto.
Se il conoscere consiste nel costruire conoscenze (acquaintance) che aumentano la razionalità e l'esistere dell'uomo, allora qualsiasi cosa e qualsiasi persona possono diventare necessarie per la conoscenza, il che equivale a dire che sono sempre un bene che l'uomo ambisce di possedere.
In altre parole, il bene è quello che l'uomo vuole e può conoscere e il male è sempre una ricerca di un bene intuitivamente cercato, ma non realizzato con la sola conoscenza.
Da questo assunto ne viene che tutto ciò che non è conoscenza costruita concretamente è di per sé un male, ossia un deficit di bene. In pratica una persona che si trincea in se stessa, perché vuol conoscere solo il proprio sé, persino nei suoi simili in funzione di specchi che rischiano di riflettere la figura di un conoscente egoista, si impoverisce sempre di più e, alla fine, si intristisce e muore, mentre gli altri si arricchiscono con continue nuove conoscenze e, anche se sembrano morire posporre sé, in effetti vivono in un sé continuamente rinnovato.
Si tratta di quella costruzione della realtà conosciuta che dipende da una precognizione intenzionalmente positiva, non limitata in quel assumere informazioni o percezioni senza una ragione precisa e senza una volontà esercitata a vivere le virtù. Tenere una tigre in casa non è mai ragionevole ed equivale a conoscere non la tigre, ma una disgrazia, mentre portarla nel maneggio di un circo diventa poco per volta quella conoscenza che si chiama ‹spettacolo di un animale ammaestrato›. Perfino i veleni naturali come il curaro e la cocaina, una volta conosciute le loro proprietà naturali, sono diventate prodotti farmaceutici non solamente utili, ma necessari.
Ovviamente ci sono conoscenze più facili, altre che lo sono meno e, altre ancora, perfino difficili, ma quel che non costa niente, vale anche niente.
In questo senso ogni conoscente ha in proprio un patrimonio di bene iniziale che consiste nella conoscenza di se stesso e che serve per conoscere, o meglio, per farsi conoscere, ma se questo bene rimane tesaurizzato e se non viene investito, non produce un usufrutto e rimane senza alcun valore, ovverosia diventa il peggiore dei mali, perché se la conoscenza è necessaria per vivere, la non conoscenza è necessaria per morire.
In pratica per conoscere il proprio e l'altrui bene, si deve abbandonare la ricerca di un guadagno per cercare invece la partecipazione, assicurandosi in questo modo un patrimonio in continuo aumento. In questo senso ci aiuta la nostra stessa natura che prima accumula conoscenze nel forziere della memoria, ma poi sembra trascurarle e di fatto le dimentica per far posto al ‹voler conoscere› affettivo e benevolente in un continuo dono perfino del proprio fisico, invece di rimanere solamente nel ‹già conosciuto›. Questa dimenticanza condotta all'estremo comporta non solamente la perdita del proprio egoismo, ma anche del proprio sé come fonte di ogni egoismo. La morte fisica sembra una impossibilità a costruire nuove conoscenze, mentre invece permette l'acquisto di una libertà senza alcun limite di amare e di volere il solo bene, non più come esperienza di un valore, ma come conoscenza concreta della realtà universale,fino a raggiungere, per quanto possibile,la conoscenza del Sommo Bene, senza difetto e senza condizione. In quel momento, a prima vista, i beni caduchi potranno apparire sfuocati e senza valore in confronto con il del Vero Bene, mentre invece verranno subito riconosciuti nella loro originalità e purezza primordiale, senza macchia e senza ombra. Un egoista ha paura di morire, una persona che ama non odia il morire, ma solamente ha paura di non saper compiere degnamente questo passo che è il più difficile tra tutte le difficili conoscenze possibili sulla terra.
Noi sogniamo facilmente una terra dove nessuna falsa conoscenza sia possibile e dove ogni comunicazione di bene sia liberalizzato e continuato in eterno, ebbene, non solo lo possiamo costruire quel poco per volta possibile sulla terra, ma anche finalmente quello Illimitato in continuo in quel Cielo che ha superato i limiti terrestri. Ebbene, anche questo traguardo senza limite è tuttavia il riflesso di quell'altro cielo che già possiamo costruire in ogni istante tra due o più persone che non mettono impedimenti alla loro partecipazione in unità. In altre parole, quando il dono di ciascun bene diventa continuo nella riedificata unità di qualsiasi accordo è già un riflesso del Paradiso. In questa conoscenza aperta è possibile costruire un’eterna verità senza limite e senza costrizione, come se ciascun interlocutore non solo la può comporre, ma anche la genera continuamente di fatto, come se fosse l’unico responsabile di questo scopo. Noi non vediamo al di là di pochi metri, ma noi facciamo subito tutto quello che conosciamo, perché non solo vogliamo farlo ma anche vogliamo dare una mano al nostro interlocutore per arrivare più avanti della lunghezza del nostro braccio. In questo modo, nasce poco per volta un mondo nuovo, come se noi stessi personalmente, eppure insieme, l'avessimo costruito. Si tratta dell’anticamera del Paradiso. In un mondo così fatto ciascuno è generatore di bene per l'altro come un padre e una madre, ma nello stesso tempo è vezzeggiato come il più piccolo, ma il più benvoluto dei propri figli, perché tutti e ciascuno si sente fratello del suo vicino e perché, in questo modo, nessuno è lontano. Allora splenderà la luce dell'Eterna Verità perchè non è mai mancato il Sommo Bene nel clima di quella Unità Ordinata, senza il turbamento di ventate improvvise. È questo il bene: non se ne possono conoscere altri. Ogni nostro simile e ogni cosa presente o assente che sia, è la porta per entrare in questo mondo nuovo. Il mondo è sconfinato, la porta è stretta, ma la conosciamo: si chiama de-fabulazione, de-erotizzazione, de-personalismo egoista. Al di qua della porta c'è il male al di là c'è il Bene di tutti i beni, basta saper scegliere il luogo che si vuole abitare.
Il male
Altri filosofi hanno definito il bene in modo diverso, ma ognuno ha contribuito alla comprensione del suo significato. È impossibile leggere tutte le spiegazioni che ci hanno rilasciato alcune rimaste forse inavvertite, ma non assenti, nella coscienza sociale, ovverosia nella memoria affettiva di quell'ente conoscenza che nasce dai due o più riuniti nella comunità a rappresentarla.
Un altro problema invece preoccupante e preminente che chiede un chiarimento necessario è quello dell'esistenza del male. Infatti, la descrizione che abbiamo fatto del bene può sembrare semplicemente utopica, come quelle forzature accettate per tacitare le questioni che, di fatto, invece sfuggono alla realtà concreta di tutti i giorni. Considerare il male solamente come una mancanza di bene può sembrare invece una mancanza di aiuto per chi non trova una soluzione delle sue difficoltà. Questa definizione comporta una certa insufficienza che si trova facilmente in molti filosofi idealisti a cominciare da Platone. Egli stesso, infatti, si è chiesto: se c’è un Dio che ha creato solamente il bene, non si comporta forse come se il male non esistesse senza preoccuparsene?
Ebbene ammettiamo che Dio si penta di aver dato agli uomini la libertà come se fosse il più grande bene, costruirà forse un mondo che è una prigione, per evitare il male che loro fanno o, invece, non userà forse ogni mancanza di bene come una frusta per correggerli e per rimettere ordine tra loro, prima ancora di ristabilirlo anche nella stessa natura? In altre parole, come dice il proverbio: o mangi sta minestra o salti sta finestra. La situazione poi è ancor peggiore. Gli uomini, infatti, dopo aver accusato Dio di trascuranza, pretendono ora di sostituirsi a lui, per fare un mondo ordinato a modo loro e, in fine, per imporlo sui propri simili che non lo vogliono accettare, pronti per questo a le lotte e le guerre più accanite del nostro mondo con una crudeltà peggiore dello stesso male che vogliono eliminare. Una volta ottenuto un minimo potere, lo usano per soverchiarsi e per umiliarsi reciprocamente e, se non è abbastanza, inventano per un verso i campi di concentramento, per eliminare i propri simili e, per un altro verso, si premuniscono con le pratiche anticoncezionali di eventuali concorrenti non autorizzati ed eliminano con l'eutanasia quelli superflui, con il risultato di accontentarsi di una vita nello stretto margine di una discutibile utilità personale. È mai possibile che qualcuno tra noi sia meglio degli altri per giustificare le sue imposizioni sui più deboli, adducendo la scusa che sono necessarie per chi non merita di sopravvivere, se non accetta i suoi interventi? Un uomo del genere ha sempre bisogno di schiavi con la frusta per controllare gli altri schiavi con le catene per servire.
Dopo una descrizione così poco entusiasmante di un mondo che sembra inevitabile dobbiamo riprendere il nostro discorso dove l'avevamo lasciato per cercare soluzioni diverse.
Ogni conoscenza è una partecipazione di bene, e ogni partecipazione disordinata è un disordine, non è un bene. In altre parole, il male non è solamente una mancanza di bene, ma è anche, e principalmente, un disordine contro natura. Fuori dell’ordine il bene diventa male perché è in contrasto con altri beni: la disunità, o il disordine, è di per sé male anche quando sembra un insieme di beni. In pratica se le cose non si combinano tra loro, allora ogni rapporto è una costrizione, quando non è una guerra e, se i beni non sono ordinati, sono semplicemente un male.
In questo senso vi sono tre tipi di mali.
Un primo tipo è quello che consiste in una mancanza di essere, perché è un essere incompleto in sé, incapace di rapportarsi (incomunicabile), per cui diventa un’ostruzione ai fini di una completa partecipazione con l’Essere.
Un secondo tipo è quel male che consiste in una mancanza di esistere, perché è un’attualizzazione extraprogettuale, che in pratica consiste in un’opera o in un comportamento di per sé produttivo, ma disordinato nel suo svolgersi, o perché le conclusioni anticipano le premesse, o perché non combinano tra loro: è un male che è avulso dall'insieme e non armonizza con le esistenze concomitanti con quella in atto. In pratica è come un’idea fissa che impedisce il flusso delle conoscenze.
Un terzo tipo è quel male che manca propriamente di ordine perché non unisce l’essere all’esistere e le varie esistenze tra loro, ma vuole costruire un ordine artificiale, o una struttura presunta, estranea all’ordine dello Spirito.
Un altro modo di considerare il bene
Dobbiamo quindi considerare di nuovo come si realizza e come si sviluppa la conoscenza per rappresentare esclusivamente un bene e per evitare che diventi un male.
Una mamma non toglie il suo latte al neonato per affamarlo, ma per dargli un cibo più consistente. Allo stesso modo la natura non toglie il fabulismo al bambino per crudeltà, ma per provvidenza, né al giovane l'erotismo per addomesticarlo, ma per addomesticare ogni rapporto umano. Ogni sviluppo segna la morte di un regresso. Chi si lamenta si ferma, chi avanza non trova nemmeno il tempo per lamentarsi, perché deve affrontare e superare il proprio sé limitato. La stessa morte, toglie un fisico non il sensibile, smorza i turbamenti non i sentimenti. Non è un male aver quel tanto di paura che serva a prepararsi per superare un'avversità, ma è una tragedia insanabile fermarsi nella difficoltà. Con la rabbia non s'impara la prudenza, ma si perde tempo inutilmente e con l'ira non si esercita la speranza ma ci si abbandona al vizio. Tutto questo pur sapendo che tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare, tuttavia ricordandosi che ogni errore serve per non ripeterlo altre volte.
In particolare, perfino la morte deve essere considerata e ricordata per quel bene che essa porta. È la nascita a una vita eterna. Come il feto è unito alla madre fisicamente per mezzo del cordone ombelicale, così noi dipendiamo qui sulla terra dal nostro mondo dal quale non possiamo separarci. Eppure, anche il bambino, quando nasce, perde quel tipo di unità fisica che aveva con la madre, ma per acquistarne ancora un’altra che è psichica, ma che non ha perso il rapporto fisico: egli sembra essersi diviso dalla madre e, invece la sua unità è diventata più profonda e più reale. In questo senso ovviamente, dopo la nascita, il cordone ombelicale sarebbe un vero impedimento assurdo per la realizzazione di questa unità. Allo stesso modo, noi ora siamo uniti all’Universale per mezzo della terra e dell’umanità, ma come una condizione e non come l'unica possibilità. Per questo, dopo la nostra nascita in cielo, lasceremo un universo inutile e caduco, per acquisire una nuova conoscenza di quello che è vero, perché in unità con la ‹Verità eterna›.
In questo senso, il male è soggettivo, mentre nell’insieme, considerato oggettivamente, non è un male, anzi è un bene, se viene affrontato come una scuola che permette all’uomo di imparare cos’è l’amore dalla sua mancanza. In questo modo egli stesso è sollecitato a cercarlo per donarlo, al posto di riceverlo passivamente con indifferenza e, nel cercarlo, già lo trova in quell’amore volente, che la ricerca evidenzia. Si può quasi dire che dove c’è il male che Dio permette, lì può cominciare ad esserci il bene dell’uomo, infatti, il nostro amore – che di per sé quando è interessato non è amore – diventa in questo modo una corrispondenza liberamente voluta all’amore ricevuto gratuitamente da Dio stesso. Su questa terra il vero amico è chi ama nella necessità e non chi si appoggia nella dovizia, così il vero amico del ‹Sommo Bene› è un uomo che non lo abbandona quando sembra essere un Dio povero ed impotente. Tutti sono d’accordo che l’amore è la cosa più cara e più bella dell’universo e, allo stesso modo, tutti cominciano a metterlo in dubbio, quando devono amare senza essere amati, eppure solamente in queste occasioni l’amore diventa una realtà in proprio e indipendente.
Qualcuno ovviamente, come alternativa, può suggerire che sia meglio distribuire in parti uguali il bene e il male, accontentandosi di eliminare chi non ha più bene da dare, ma non credo che sia una proposta soddisfacente per tutti. L’uomo alla scuola del dolore costruisce un sé senza im purità e senza egoismo, e questo è il vero bene, che lo fa amante e, in qualche modo, divino e quindi immortale.
In questo senso non si tratta più di accontentarsi di un utile, ma di una corrispondenza intima, che consiste nell’accorgersi come i sentimenti dell’uomo vibrano all’unisono con quelli di chi gli ha già mostrato i suoi, per mezzo dei doni che sono la prova del suo amore. A questo punto il bene è certamente l’amore di Dio, ma è nello stesso tempo l’amore personale dell’uomo verso di lui: il vero bene è Dio amore e l’Amore che è Dio, il suo è infinito e quello dell’uomo partecipato.
Quello che è la nostra condizione è, nello stesso tempo la nostra fortuna: se noi non avessimo bisogno di Dio, probabilmente non ci saremmo nemmeno accorti che egli ci ama, e saremmo così mancati al suo amore e in questa mancanza consiste il massimo di ogni male.
Un altro modo di considerare il male.
Il fatto che abbiamo ricevuto il bene denuncia come esso sia limitato; per non esserlo, dovrebbe non dipendere da un altro, ma da noi personalmente, e questo, anche se l’altro è Dio stesso.
Di per sé dipendere da un altro vuol dire ammettere una condizione, per così dire, mettere in preventivo una insicurezza, tanto è vero che alle volte l’avvertiamo dolorosamente. Per lo stesso motivo non ci meravigliamo di certo se qualcuno di noi si mette in una posizione critica e di pretesa: quando si accorge di mancare fa presente le proprie necessità come se fossero diritti, Non avviene invece così per chi accetta il dono per amore e non per necessità. Una persona piena di gratitudine nel riconoscere la sua dipendenza l’accetta con fiducia, accetta persino il male sapendo che viene da chi gli vuol bene. L’esempio classico che illustra questa posizione è quello del bambino che accetta sia i doni dalla mamma, sia i suoi castighi, pur lamentandosi, ma senza staccarsi da lei. In un certo senso è il bambino che fa diventare bene quel male che prova, così analogamente, è l’uomo grato che crea il bene dove avverte il male. Facendo così, egli diventa in qualche modo il beneficante di chi lo ha beneficato, si mette quasi al suo stesso livello. In questo senso si libera da una dipendenza e da una necessità, acquista nei riguardi del Donatore e dello stesso dono una libertà che sembrerebbe altrimenti impossibile.
Riepilogo su ‹il bene›
Tutte le nostre riflessioni sul bene sono il risultato della constatazione che qualsiasi conoscenza consiste nella partecipazione del conoscente e del conosciuto per formare una realtà nuova che aumenta la razionalità e la vita dell'uomo affidandogli un incarico e una vocazione specifica e personale, come se fosse una continuazione dell'opera di Dio in seno all'intero universo.
In questo senso si può considerare un bene sia la persona che offre un dono, sia il dono che manifesta le sue intenzioni.
Le due ‹concezioni› di cosa sia il bene non si escludono a vicenda, ma l’una spiega l’altra purché si tenga presente 1. che il bene si desidera, ovverosia si vuole, 2. che non lo si può creare autonomamente, ma che lo si deve realizzare per partecipazione, 3 che tra tutti i beni noi possiamo volere solo quello Sommo, altrimenti dichiareremmo di preferire un ‹meno bene› ed ogni minor bene è un male.
Il problema semmai è di ammettere l’esistenza di un Sommo Bene, ma anche in questo caso non c’è una grande difficoltà, perché noi vogliamo tutti i beni, nessuno escluso, e nessuno in contrasto con l’altro. È vero che ne scegliamo uno per volta, ma anche questo perché un bene non scelto, indifferente, anonimo, piatto, banale non ci soddisferebbe mai. Quindi noi vogliamo un qualcosa di reale e di personale, perché i beni a nostra disposizione sono realtà e persone. A questo punto è evidente che noi, o siamo costretti a rinunciare al bene per accontentarci di una serie di surrogati che propriamente sono ‹mancanze di beni›, oppure dobbiamo volere il massimo e la perfezione, ovverosia il Sommo Bene, che è Dio. Ora, anche i cosiddetti atei lavorano per conquistare una perfezione e nessuno si accontenta di quello che ha. Se nella pratica noi cerchiamo il Sommo Bene, come possiamo negarlo nelle teoria?
È insito nella natura dell’uomo la ricerca del Sommo Bene, tanto che un uomo che non tende al suo raggiungimento potrebbe essere considerato meno uomo o, almeno, un rinunciatario pratico.
In questo senso non solamente la natura partecipativa dell’uomo, ma anche la sua dignità sta in questa partecipazione con il Sommo Bene e non in una fruizione di beni più immaginati che voluti, più necessitanti che necessari, ovvero poco conosciuti e mal desiderati.
La partecipazione stessa dà all’uomo la possibilità di conoscere il bene e gli dona insieme lo stesso bene, in altre parole è fine e mezzo nello stesso tempo.
Come mai questo?
La partecipazione è il fondamento che costituisce la natura dell’uomo, permette la capacità del suo conoscere e del suo agire, e prevede le virtù che gli permettono l’unità con tutto il creato e lo stesso Increato. In questo modo in essa sta tutto il bene dell’uomo. La partecipazione conferisce all’uomo l’essere come ricchezza o patrimonio, in pratica gli conferisce il suo ‹proprio›. Sotto forma di comunione e comunicazione gli permette l’esistere per tendere e raggiungere il Sommo Bene. Come ragione analogica permette al suo spirito l’ordine che consegue la pace e l’unità. Da un punto di vista concreto il bene si esprime nella giustizia che è il riconoscimento del proprio, nella sapienza che è l’acquisizione del vero e nella carità che è l’unità concreta – la carità è più grande dell’amore e della benevolenza, perché è vera partecipazione di Dio per l’uomo che l’ha ricevuta e che la può donare a sua volta.
Quindi, il bene dell’uomo è Dio stesso come partecipazione che l’uomo accoglie e che può – non nei suoi limiti, ma nelle sue possibilità personali – donare a sua volta, in una sola parola, è l’amore che ha ricevuto e quello concreto che egli può e deve dare. Il bene è compimento e perfezione, l’uomo che lo possiede è sempre colmo di felicità e l’uomo che non ama è perennemente in contrasto con se stesso e con qualsiasi altra realtà.
Egoismo
Se il bene è l’amore, come mai l’uomo molte volte è egoista?
Nessuno dà il suo a quella persona che non lo ama, per paura di perderlo e nessuno accetterebbe qualcosa, sempre da chi non lo ama, per paura di diventarne schiavo. Già da questi esempi si vede come il vero amore è quello reciproco – che, in misura perfetta, è forse impossibile su questa terra –, infatti, se non è reciproco è indifferente e quindi è meno amore, ovverosia è un male. Un vero e un Sommo Bene deve essere concreto e non amorfo, quindi personale e non teorico, anonimo, grigio e piatto. In altre parole deve essere un bene per un essere specifico donato da una persona a un’altra persona, se non di uguale valore, tuttavia di uguale dignità. Di per sé il vero bene non è nemmeno un sommo bene, perfetto ma lontano, bensì è quello di una persona che ama un dato essere: quello della madre, del padre, dei fratelli della sposa. Gli idolatri lo ravvisavano negli dei penati, perché solo loro sembravano un dio vicino e, forse, si appellavano alla morte per perfezionare quell’amore al quale si sentivano obbligati e che avevano mancato con i parenti da vivi e, soprattutto, perché non conoscevano una persona che li avesse amati più di loro. Noi, invece, abbiamo conosciuto e amiamo una persona il cui amore è superiore a qualsiasi altro, perché ha dato la vita a tutti gli altri amori. Questa persona è il Sommo Bene e non abbiamo altro Amore e altro Dio all’infuori di lui.
Il bene dei beni
Tutte queste riflessioni hanno solamente valore se si tiene conto del fatto che riguardano un uomo che vuole partecipare con i suoi simili. Di per sé non è un bene il cosiddetto bene, ma la persona che lo fa.
Questo enunciato non abbisogna di dimostrazioni o di spiegazioni, ma di descrizioni che mettano in luce la realtà pratica. A questo scopo un episodio della vita di un mio amico – che qui ricopio come lui lo ha riferito in un libro che abbiamo scritto insieme (sette autori raccontano) – ne rappresenta un fatto esemplare.
La mia mamma e la mia sorellina
Subito dopo la guerra non c’era abbastanza da mangiare, specialmente per chi abitava in città e nemmeno combustibili per potersi riscaldare, tutto, e in qualsiasi modo, senza guardare per il sottile, sembrava permesso per cercare di procurarsi il necessario. Lo stesso cardinal Frings di Colonia aveva, per così dire, benedetto, questo modo di fare che prese poi il nome di ‹fringsen›. Una volta andammo io e la sorellina, a sera tarda, allo scalo merci della ferrovia per rubare un po’ di carbone, perché a casa nostra si moriva dal freddo. Vi arrivammo di soppiatto cercando di non far rumore. Mentre mettevamo i pezzi di carbone uno dopo l’altro nei nostri sacchi, si udì un rumore e dalla casa del guardiano della ferrovia; uscì un signore che ci ordinò di rimettere il carbone dove l’avevamo preso. La mia sorellina, però, gli chiese ingenuamente se poteva tenere i suoi, perché a casa aveva tanto freddo. “Sì, ma vedi di scomparire da qui!”, rispose il guardiano, che non aveva il coraggio di impedirglielo, perché sentiva compassione per quella piccina.
In quel tempo c’era semplicemente solo niente! Qualsiasi cosa aveva valore. Perfino quello che i cavalli lasciavano per strada. Mia nonna mi mandava con un secchio ed una paletta a raccoglierlo per concimare l’orto di casa.
Per comperare le provviste bisognava fare la fila e molto spesso erano lunghe code di tanta gente davanti ai negozi. Una volta, mentre scaricavano della merce davanti ad un negozio di pesci, improvvisamente cadde un barile pieno di arringhe e si schiantò al suolo. I pesci guizzarono dovunque sparpagliandosi sull’asfalto della strada. In men che non si dica la gente si precipitò su quella provvidenza e altrettanto in fretta scomparve ognuno con quel che aveva raccolto. Tutti dicevano che simili fatti non erano in ‹ordine›, ma la fame era ancor più fuori di qualsiasi ordine riconosciuto …
Una volta ho visto mia mamma piangere amaramente, quando ci sorprese, ancora bambini, di notte, raggiungere furtivamente la cucina, per arrivare al pane che avrebbe dovuto servire a tutta la famiglia per i giorni successivi. Non ci sgridò: si vedeva che pativa perché non aveva il necessario per sfamare i suoi figlioli.
Ancora oggi quando ricordo le lagrime di mia mamma e la situazione di quel tempo mi accorgo che, se la giustizia è un sommo bene; l’amore è una giustizia maggiore ed il patire, perfino quando non si può bene-volere è il più sublime degli amori. (Da: ‹I racconti degli amici›).
Da questo episodio viene in evidenza la diversità tra il pane che esprimeva l’amore della madre per i suoi figli e l’amore in se stesso che era ancor più grande del pane che poteva mancare. Ebbene, se è più grande il bene che è l’amore al posto del necessario che manca, ancor più grande è il bene che è la stessa persona, anche quando non può dare il pane. È il dono che manifesta l’amore, ma il vero bene è la persona che ama. Se tutta la terra soddisfacesse qualsiasi desiderio dei suoi abitanti, ma mancasse la persona che porge i suoi doni, l’uomo sarebbe l’animale più povero dell’universo, perché gli mancherebbe il suo ‹simile-in-immagine›, ovverosia ‹simile-in-amore›, perché l’Amore è l’immagine di Dio che egli stesso ha incarnato e rivelato all’uomo o, in altre parole è l’unico significato di Dio che l’uomo può comprendere del tutto. In questo senso non esiste un ‹bene-astratto›. Già abbiamo visto che non esiste nemmeno il bene se non come dono del ‹Sommo Bene› che, se non fosse una persona, mancherebbe di un qualcosa che invece possiede qualsiasi uomo. Ripetendo, dobbiamo affermare che il bene è solamente il dono personale del Sommo Bene. Da questa affermazione si può desumere che non manca nemmeno il male come personificazione, anche se è difficile una sua comprensione. Del resto noi ci siamo resi conto che qualsiasi conoscenza è un bene e, nello stesso tempo, è un ente reale e concreto, per cui non è assurdo postulare che anche il male è quella ‹non-conoscenza› che consiste in una malvagità personificata. Anche in questo caso più dei discorsi valgono i dati di fatto, ma per non descrivere dei resoconti crudi se non crudeli, mi limito a trascrivere una favoletta tolta da uno dei miei libri ‹C'era una volta un diavolo per bene›, se non altro introdurrà una pausa nella fatica di un pensare non senza immagini ma ... senza favole.
Dispettucci e dispettini (favola)
Una volta il Diavolo, vedendo quanto fosse facile convincere qualcuno a fare il male con la prospettiva di cavarne un guadagno, si rammaricava a morte nel vedere che nessuno lo volesse fare per puro spirito di perfezione, senza alcun interesse, ma solo per odio e cattiveria.
Infatti, vedeva con dolore gli uomini avviati verso un destino di mediocrità, senza poter godere di quella luce vivida e crudele che dona tanto fascino e splendore alla sua presenza.
Eppure, a ben considerare le cose, si accorse anch’egli che non avrebbe mai potuto conseguire successo, se si ostinava a presentare loro così alte e inaccessibili vette di virtù.
Avrebbe invece dovuto incominciare dal poco, passo dopo passo, a insegnare la strada di un cammino, sì aspro, ma tanto promettente.
E nel pensare le prime mosse da proporre, cominciò a considerare con più attenzione i piccoli dispetti: i dispettucci senza senso. Tanto insignificanti e di così poco conto che non sono mai presi sul serio, facili da fare che sembrano solo un gioco, così innocenti, che nessuno può recriminare. Eppure proprio loro fatti senza guadagno, senza interesse, ma solo per la gioia di dar fastidio a qualcuno o di rovinare, un poco, qualche cosa. E più li contemplava, e più li vedeva necessari, splendidi inizi di una carriera, fatta di puro spirito di dedizione al male ed alla cattiveria. Vedeva gli annunci strappati, i segnali stradali rimossi, le scritta sulle mura, lo sporco per la strada, la roba rovinata, i piccoli furterelli, i fastidi per gli amici e tutto per un gioco innocente e solo per allegria. Si immaginava un mondo di gente cupa, perché solo attenta a rovinare la gioia agli altri e di altra gente che si ingegnava a rendere la pariglia, arrabbiata e senza soddisfazione, in un posto noioso e brutto, e non voleva esser disturbato in questa sua contemplazione, felice di esser finalmente sicuro che quelle mete che sarebbero state impossibili a pochi, stessero per diventare patrimonio dell’intera collettività.
Insomma, a farla breve, mentre lui contemplava beato un mondo così fatto, noi invece l’abbiamo talvolta a sopportare, armati di pazienza e di buona volontà.